Pascoli testi analizzati


GIOVANNI  PASCOLI

Lavandare  (Da Myricae)

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.



Il lampo

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che,largo,esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.


Il tuono
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rifranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.


X Agosto

San Lorenzo , io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto :
l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono ;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!

La mia sera (dai Canti di Castelvecchio)

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

E’, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io … che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don … Don … E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra …
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era …
sentivo mia madre … poi nulla …
sul far della sera.


Il fanciullino, XIV
(…)
Ma poi per la poesia vera e propria, a noi manca, o sembra mancare, la lingua.
La poesia consiste nella visione d'un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.
Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che hanno sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo. Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de' fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S'ha sempre a dire uccelli, sì di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?
Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c'è, da regione a regione, anzi da contado a contado. Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori, piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna, il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante in altre. Ma gl'italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell'elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule. E così il poeta, se vuol poetare, bisogna che si lasci ogni tanto dire: E questo che è? Che vuol dire? O poeta saccente e seccante! E tuttavia così il poeta deve fare, e lasciar dire così, sperando, se non altro, che se ne avvantaggino i poeti futuri, i quali troveranno divulgati tanti nomi prima ignoti e perciò chiamati oscuri. In verità non è egli l'Adamo che per primo mette i nomi? Così deve operare, facendo a ogni momento qualche rinunzia d'amor proprio. Perché l'arte del poeta è sempre una rinunzia.
Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia. Deve fare a meno di tanti ghirigori, così facili a farsi, di tante bellurie, così piacevoli alla vista, di tante dorature, che danno tanta idea della propria ricchezza: e questa è rinunzia. Deve lasciar molto greggio e molto imperfetto. Oh! Come è necessaria l'imperfezione per essere perfetti!




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