28/09/08

Carlo Ginzburg, Miti emblemi spie.

Carlo Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1992 (19861), pp. 166-169.

Per millenni l'uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, piume impigliate, odori stagnanti. Ha imparato a fiutare, registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come fili di bava. Ha imparato a compiere operazioni mentali complesse con rapidità fulminea, nel fitto di una boscaglia o in una radura piena d'insidie.

Generazioni e generazioni di cacciatori hanno arricchito e trasmesso questo patrimonio conoscitivo. In mancanza di una documentazione verbale da affiancare alle pitture rupestri e ai manufatti, possiamo ricorrere ai racconti di fiabe, che del sapere di quei remoti cacciatori ci trasmettono talvolta un'eco, anche se tardiva e deformata. Tre fratelli (racconta una fiaba orientale, diffusa tra chirghisi, tatari, ebrei, turchi…) incontrano un uomo che ha perso un cammello – o, in altre varianti, un cavallo. Senza esitare glielo descrivono: è bianco, cieco da un occhio, ha due otri sulla schiena, uno pieno di vino, l'altro pieno d'olio. Dunque l'hanno visto? No, non l'hanno visto. Allora vengono accusati di furto e sottoposti a giudizio. È, per i fratelli, il trionfo: in un lampo dimostrano come, attraverso indizi minimi, abbiano potuto ricostruire l'aspetto di un animale che non avevano mai avuto sotto gli occhi.
I tre fratelli sono evidentemente depositari di un sapere di tipo venatorio (anche se non vengono descritti come cacciatori). Ciò che caratterizza questo sapere è la capacità di risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a una realtà complessa non sperimentabile direttamente. Si può aggiungere che questi dati vengono sempre disposti dall'osservatore in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa, la cui formulazione più semplice potrebbe essere «qualcuno è passato di là». Forse l'idea stessa di narrazione (distinta dall'incantesimo, dallo scongiuro o dall'invocazione) nacque per la prima volta in una società di cacciatori, dall'esperienza della decifrazione delle tracce. Il fatto che le figure retoriche su cui s'impernia ancora oggi il linguaggio per la decifrazione venatoria – la parte per il tutto, l'effetto per la causa – siano riconducibili all'asse prosastico della metonimia, con rigorosa esclusione della metafora, rafforzerebbe quest'ipotesi – ovviamente indimostrabile. Il cacciatore sarebbe stato il primo a «raccontare una storia» perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili) lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi.

«Decifrare» o «leggere» le tracce degli animali sono metafore. Si è tentati però di prenderle alla lettera, come la condensazione verbale di un processo storico che portò, in un arco temporale forse lunghissimo, all'invenzione della scrittura. La stessa connessione è formulata, sotto forma di mito aitiologico, dalla tradizione cinese che attribuiva l'invenzione della scrittura a un alto funzionario che aveva osservato le orme di un uccello stampate sulla riva sabbiosa di un fiume. D'altra parte, se si abbandona l'ambito dei miti e delle ipotesi per quello della storia documentata, si è colpiti dalle innegabili analogie tra il paradigma venatorio che abbiamo delineato e il paradigma implicito nei testi divinatori mesopotamici, redatti dal III millennio a. C. in poi. Entrambi presuppongono la minuziosa ricognizione di una realtà magari infima, per scoprire le tracce di eventi non direttamente esperibili dall'osservatore. Sterco, orme, peli, piume da un lato; interiora di animali, gocce d'olio nell'acqua, astri, movimenti involontari del corpo e così via, dall'altro. È vero che la seconda serie, a differenza della prima, era praticamente illimitata, nel senso che tutto, o quasi, poteva per gli indovini mesopotamici diventare oggetto di divinazione. Ma la divergenza principale ai nostri occhi è un'altra: il fatto che la divinazione fosse rivolta al futuro e la decifrazione venatoria al passato (magari un passato vecchio di attimi). Eppure l'atteggiamento conoscitivo era, nei due casi, molto simile; le operazioni intellettuali implicate – analisi, confronti, classificazioni – formalmente identiche. Solo formalmente, certo il contesto sociale era del tutto diverso. In particolare, è stato notato come l'invenzione della scrittura modellasse nel profondo la divinazione mesopotamica. Alle divinità veniva attribuita infatti, tra le altre prerogative dei sovrani, quella di comunicare con i sudditi per mezzo di messaggi scritti – negli astri, nei corpi umani, dappertutto – che gli indovini avevano il compito di decifrare (un'idea, questa destinata a sfociare nell'immagine plurimillenaria del «libro della natura»). E l'identificazione della mantica con la decifrazione dei caratteri divini iscritti nella realtà era rafforzata dalle caratteristiche pittografiche della scrittura cuneiforme: anch'essa, come la divinazione, disegnava cose attraverso cose.

Anche un'orma designa un animale che è passato. Rispetto alla concretezza dell'orma, della traccia materialmente intesa, il pittogramma rappresenta già un passo aventi incalcolabile sulla via dell'astrazione intellettuale. Ma le capacità astrattive presupposte dall'introduzione della scrittura pittografica sono a loro volta ben poca cosa in confronto a quelle richieste dal passaggio della scrittura fonetica. Di fatto, nella scrittura cuneiforme elementi pittografici e fonetici continuano a coesistere, così come nella letteratura divinatoria mesopotamica il progressivo intensificarsi dei tratti aprioristici e generalizzanti non cancellò la propensione fondamentale a inferire le cause dagli effetti. È questo atteggiamento che spiega da un lato, l'infiltrazione della lingua della divinazione mesopotamica di termini tecnici tratti dal lessico giuridico; dall'altro, la presenza nei tratti divinatori di brani di fisiognomica e di semeiotica medica.
Dopo un lungo giro siamo dunque tornati alla semeiotica. La ritroviamo inclusa in una costellazione di discipline (ma il termine è evidentemente anacronistico) dall'aspetto singolare. Si potrebbe essere tentati di contrapporre due pseudoscienze come la divinazione e la fisiognomica a due scienze come il diritto e la medicina – attribuendo l'eterogeneità dell'accostamento alla lontananza spaziale e temporale delle società di cui stiamo parlando. Ma sarebbe una conclusione superficiale. Qualcosa legava davvero queste forme di sapere nell'antica Mesopotamia (se escludiamo da esse la divinazione ispirata, che si fondava su esperienze di tipo estatico): un atteggiamento orientato verso l'analisi di casi individuali, ricostruibili unicamente attraverso tracce, sintomi, indizi. Gli stessi testi di giurisprudenza mesopotamici non consistevano in raccolte di leggi o di ordinanze ma nella discussione di una casistica concreta. Si può insomma parlare di paradigma indiziario o divinatorio, rivolto, a seconda delle forme di sapere, verso il passato il presente o il futuro. Verso il futuro – e si aveva la divinazione in senso proprio; verso il passato, il presente e il futuro – e si aveva la semeiotica medica nella sua duplice faccia, diagnostica e prognostica; verso il passato, e si aveva la giurisprudenza. Ma dietro questo paradigma indiziario o divinatorio s'intravvede il genere forse più antico della storia intellettuale del genere umano: quello del cacciatore accovacciato nel fango che scruta le tracce della preda.

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