BRANI DI TESTI SECONDO NOVECENTO


BRANI DI TESTI SECONDO NOVECENTO
INDICE
SCIASCIA (POLIZIESCO)
ECO (STORICO E SPERIMENTALE)
TOMASI (STORICO)
MORANTE (STORICO)
MARAINI (STORICO)
PASOLINI (NEOREALISMO)
LEVI (REALISTICO)
CALVINO (SPERIMENTALE)

Leonardo Sciascia, Una storia semplice 1989  -   TESTO COMPLETO

Umberto Eco, Il nome della rosa, 1980
Naturalmente, un manoscritto
Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d'après l'édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l'Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato da indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell'ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio. In un clima mentale di grande eccitazione leggevo, affascinato, la terribile storia di Adso da Melk, e tanto me ne lasciai assorbire che quasi di getto ne stesi una traduzione, su alcuni grandi quaderni della Papéterie Joseph Gibert, su cui è tanto piacevole scrivere se la penna è morbida. E così facendo arrivammo nei pressi di Melk, dove ancora, a picco su un'ansa del fiume, si erge il bellissimo Stift più volte restaurato nei secoli. Come il lettore avrà immaginato, nella biblioteca del monastero non trovai traccia del manoscritto di Adso. Prima di arrivare a Salisburgo, una tragica notte in un piccolo albergo sulle rive del Mondsee, il mio sodalizio di viaggio bruscamente si interruppe e la persona con cui viaggiavo scomparve portando seco il libro dell'abate Vallet, non per malizia, ma a causa del modo disordinato e abrupto con cui aveva avuto fine il nostro rapporto. Mi rimase così una serie di quaderni manoscritti di mio pugno, e un gran vuoto nel cuore. Alcuni mesi dopo a Parigi decisi di andare a fondo nella mia ricerca. Delle poche notizie che avevo tratto dal libro francese, mi rimaneva il riferimento alla fonte, eccezionalmente minuto e preciso [---] 
Proprio non so perché mi sia deciso a prendere il coraggio a due mani e a presentare come se fosse autentico il manoscritto di Adso da Melk. Diciamo: un gesto di innamoramento. O, se si vuole, un modo per liberarmi da numerose e antiche ossessioni. Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell'abate Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo. A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell'uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amor di scrittura. E così ora mi sento libero di raccontare, per semplice gusto fabulatorio, la storia di Adso da Melk, e provo conforto e consolazione nel ritrovarla così incommensurabilmente lontana nel tempo (ora che la veglia della ragione ha fugato tutti i mostri che il suo sonno aveva generato), così gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze. Perché essa è storia di libri, non di miserie quotidiane, e la sua lettura può inclinarci a recitare, col grande imitatore da Kempis: “In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro.”
5 gennaio 1980
FINALE
Rovistando tra le macerie trovavo a tratti brandelli di pergamena, precipitati dallo scriptorium[1] e dalla biblioteca e sopravvissuti come tesori sepolti nella terra; e incominciai a raccoglierli, come se dovessi ricomporre i fogli di un libro…Povera messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla,come se da quelle disiecta membra[2] della biblioteca dovesse pervenirmi un messaggio. Alcuni brandelli di pergamena erano scoloriti, altri lasciavano intravvedere l’ombra di una immagine, a tratti il fantasma di una o più parole…Larve di libri, apparentemente ancora sane di fuori ma divorate all’interno: eppure qualche volta si era salvato un mezzo foglio, traspariva un incipit, un titolo…Raccolsi ogni reliquia che potei trovare, e ne empii due sacche da viaggio. Lungo il viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di decifrare quelle vestigia[3]. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di quale opera si trattasse. Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri, li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato[4] , come se l’averne individuato la copia distrutta fosse stato un segno chiaro del cielo che diceva tolle et lege[5]. Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnò come una biblioteca minore, segno di  quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri. Più rileggo questo elenco più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun messaggio. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è rimasta da vivere, le ho spesso consultate come un oracolo[6], e ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone[7]che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia. Ma quale delle due venture[8] si sia data, più recito a me stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera[9] che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’ uno, e molti, o nessuno. Ma questa mia inabilità a vedere è forse effetto dell’ombra che la  grande tenebra che si avvicina sta gettando sul mondo incanutito…Non mi rimane che tacere. O quam salubre, quam iucundum et suave est sedere in solitudine et tacere et loqui cum Deo![10] Tra poco mi ricongiungerò col mio principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia, come credevano i minoriti [11]di allora, forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier[12]… . Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze…Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.



TOMASI DI LAMPEDUSA IL GATTOPARDO 1958

“Ma allora, principe, perché non accettare?”
 “Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’ 1; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”[…] “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana”. […] Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici 4, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? Io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi  per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.” Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina,  ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”

Elsa Morante, La storia,  1974

Un brano

Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa tenendo per mano Useppe. (…)
Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse: “Lioplani”[1]. E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato in una mitraglia di frammenti.
“Useppe! Useppee,.!” urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: “Mà sto qui”, le rispose all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo[2] (…)
Intanto, era cominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pattini, su un terreno rimosso che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalle sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo.
Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva verso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi ch’era incolume[3]. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione. (…) Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. “Non è niente”, essa gli disse, “Non aver paura. Non è niente”. Lui aveva perduto i sandaletti ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo si sentiva appena tremare:
“Nente…” diceva poi, fra persuaso e interrogativo.
I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto[4] a Ida, uno di qua e uno di là. Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero, intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile.
Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube pulverulenta[5] che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. (…)
La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, in cui le pareva di riconoscere la parola casa: “Mà, quando torniamo a casa?”. La sporta gli calava sugli occhietti, e lui fremeva, adesso, in una impazienza feroce. Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso “mà?….casa?…” seguitava ostinata la sua vocina. Ma era difficile riconoscere le strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano travi e le persiane divelte[6], fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò[7], intatto, il casamento[8] con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi. Qui Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia e a scendere in terra. E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di polverone, incominciò a gridare:
“Bii! Biii! Biiii!” [9]
Il loro caseggiato era distrutto (…)
Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare:
“Bii! Biii! Biiii!”

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DACIA MARAINI,  LA LUNGA VITA DI MARIANNA UCRIA, 1990
CAP I – Incipit

Un padre e una figlia eccoli lì: lui biondo, bello, sorridente, lei goffa, lentigginosa, spaventata. Lui elegante e trasandato, con le calze ciondolanti, la parrucca infilata di traverso, lei chiusa dentro un corsetto amaranto che mette in risalto la carnagione cerea.
La bambina segue nello specchio il padre che, chino, si aggiusta le calze bianche sui polpacci. La bocca è in movimento ma il suono delle parole non la raggiunge, si perde prima di arrivare alle sue orecchie quasi che la distanza visibile che li separa fosse solo un inciampo dell'occhio. Sembrano vicini ma sono lontani mille miglia.
La bambina spia le labbra del padre che ora si muovono più in fretta. Sa cosa le sta dicendo anche se non lo sente: che si sbrighi a salutare la signora madre, che scenda in cortile con lui, che monti di corsa in carrozza perché, come al solito sono in ritardo.
Intanto Raffaele Cuffa che quando è alla "casena" cammina come una volpe a passi leggeri e cauti, ha raggiunto il duca Signoretto e gli porge una larga cesta di vimine intrecciato su cui spicca una croce bianca.
Il duca apre il coperchio con un leggero movimento del polso che la figlia riconosce come uno dei suoi gesti più consueti: è il moto stizzoso con cui getta da una parte le cose che lo annoiano. Quella mano indolente e sensuale si caccia fra le stoffe ben stirate, rabbrividisce al contatto col gelido crocifisso d'argento, dà una strizzata al sacchetto pieno di monete e poi sguscia fuori rapida. Ad un cenno, Raffaele Cuffa si affretta a richiudere la cesta. Ora si tratta solo di fare correre i cavalli fino a Palermo.
Marianna intanto si è precipitata nella camera da letto dei genitori dove trova la madre riversa fra le lenzuola, la camicia gonfia di pizzi che le scivola su una spalla, le dita della mano chiuse attorno alla tabacchiera di smalto.
La bambina si ferma un attimo sopraffatta dall'odore del trinciato al miele che si mescola agli altri effluvi che accompagnano il risveglio materno: olio di rose, sudore rappreso, orina secca, pasticche al profumo di giaggiolo.
La madre stringe a sé la figlia con un gesto di pigra tenerezza.
Marianna vede le labbra che si muovono ma non vuole fare lo sforzo di indovinarne le parole. Sa che le sta dicendo di non attraversare la strada da sola perché sorda com'è potrebbe trovarsi stritolata sotto una carrozza che non ha sentito arrivare. E poi i cani, che siano grandi o piccoli, che stia alla larga dai cani. Le loro code, lo sa bene, si allungano fino ad avvolgersi intorno alla vita delle persone come fanno le chimere e poi zac, ti infilzano con quella punta biforcuta che sei morta e neanche te ne accorgi...Per un momento la bambina fissa lo sguardo sul mento grassoccio della signora madre, sulla bocca bellissima dalle linee pure, sulle guance lisce e rosee, sugli occhi ingenui, arresi e lontani; non diventerò mai come lei, si dice, mai, neanche morta.

CAP XXI . "UNA BIBLIOTECA"

[...] Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna sterile e assoluto. Fra le sue mani un libro d'amore. Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. E questa la divina vendemmia della letteratura?
Trepidare con i personaggi che corrono fra le pagine, bere il succo del pensiero altrui, provare l'ebbrezza rimandata di un piacere che appartiene ad altri. Esaltare i propri sensi attraverso lo spettacolo sempre ripetuto dell'amore in rappresentazione, non è amore anche questo? Che importanza ha che questo amore non sia mai stato vissuto faccia a faccia direttamente? assistere agli abbracci di corpi estranei, ma quanto vicini e noti per via di lettura, non è come viverlo quell'abbraccio, con un privilegio in più, di rimanere padroni di sé?
Un sospetto le attraversa la mente: che il suo sia solo uno spiare i respiri degli altri. Così come cerca di interpretare sulle labbra di chi le sta accanto il ritmo delle frasi, rincorre su queste pagine il farsi e il disfarsi degli amori altrui. Non è una caricatura un po' penosa?
Quante ore ha trascorso in quella biblioteca, imparando a cavare l'oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi a mollo nelle acque torbide della letteratura.Che ne ha ricavato? qualche granello di ruvido bitorzoluto sapere. Da un libro all'altro, da una pagina all'altra. Centinaia di storie d'amore, di allegria, di disperazione, di morte,di godimenti, di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì seduta su quella poltrona dal centrino ricamato e consunto dietro la testa.
La parte bassa degli scaffali, quelli raggiungibili da mani infantili contengono soprattutto vite di santi: La sequenza di santa Eulalia, La vita di san Leodegario, qualche libro in francese Le jeu de saint Nicolas, il Cymbalum mundi, qualche libro in spagnolo come il Rimado de palacio o il Lazarillo de Tormes. Una montagna di almanacchi: della Luna nuova, degli Amori sotto Marte, del Raccolto, dei Venti; nonché storie di paladini di Francia e alcuni romanzi per signorine che parlano d'amore con ipocrita licenza.
Più sopra, negli scaffali ad altezza d'uomo si possono trovare i classici: dalla Vita nuova all'Orlando furioso, dal De rerum natura ai Dialoghi di Platone nonché qualche romanzo alla moda come il Colloandro fedele e La leggenda delle vergini. Questi erano i libri della biblioteca di villa Ucrìa quando l'ha ereditata Marianna. Ma da quando la frequenta assiduamente i libri sono raddoppiati. Da principio la scusa era lo studio dell'inglese e del francese. E quindi vocabolari, grammatiche, compendii. Poi, qualche libro di viaggi con disegni di mondi lontani e infine, con sempre più ardimento,romanzi moderni, libri di storia, di filosofia.
Da quando i figli sono andati via ha molto più tempo a disposizione. E i libri non le bastano mai. Li ordina a dozzine ma spesso ci mettono dei mesi per arrivare. Come il pacchetto che conteneva il Paradise Lost che è rimasto cinque mesi al porto di Palermo senza che nessuno sapesse dove fosse andato a finire. Oppure la Histoire comique de Francion che è andato perso nel tragitto fra Napoli e la Sicilia in un battello che è affondato al largo di Capri.
Altri li ha prestati e non ricorda più a chi; come i Lais di Maria di Francia che non sono più tornati indietro. O il Romance de Brut che deve essere nelle mani di suo fratello Carloal convento di San Martino delle Scale.
Queste letture che si protraggono fino a notte fonda sono prostranti ma anche dense di piaceri. Marianna non riesce mai a decidersi ad andare a letto. E se non fosse per la sete che quasi sempre la strappa alla lettura continuerebbe fino a giorno.
Uscire da un libro è come uscire dal meglio di sé. Passare dagli archi soffici e ariosi della mente alle goffaggini di un corpo accattone sempre in cerca di qualcosa è comunque una resa. Lasciare persone note e care per ritrovare una se stessa che non ama, chiusa in una contabilità ridicola di giornate che si sommano a giornate come fossero indistinguibili. La sete ha messo il suo zampino in quella quiete sensuale togliendo profumo ai fiori, ispessendo le ombre. Il silenzio di questa notte è soffocante.
Tornata alla biblioteca, alle candele consumate, Marianna si chiede perché queste notti le stanno diventando strette. E perché ogni cosa tenda a precipitare verso l'interno della sua testa come dentro un pozzo dalle acque scure in cui ogni tanto echeggia un tonfo, una caduta, ma di che?

CAP XLIII - FINALE (Marianna si trova a Roma)

In quella quiete meridiana Marianna si chiede se potrebbe mai appropriarsi di questo paesaggio, farsene una casa, un asilo. Tutto le è estraneo e perciò caro. Ma fino a quando si può chiedere alle cose che ci stanno intorno, di rimanere forestiere, perfettamente comprensibili e remote nella loro indecifrabilità?
Il sottrarsi al futuro che le sta apparecchiando la sorte non sarà una sfida troppo grossa per le sue forze? questa voglia di conoscere gente diversa, questa voglia di girovagare, non sarà una superbia inutile, un poco frivola e perversa?  Dove andrà a casarsi che ogni casa le pare troppo radicata e prevedibile? Le piacerebbe mettersela sulle spalle come una chiocciola e andare senza sapere dove. Dimenticare la pienezza di un abbraccio desiderato non sarà facile. La chiusa sta lì a ghermire ogni gocciolo di ricordo, ogni mollichella di diletto. Ma ci deve pur essere qualcos'altro che appartiene al mondo dlela saggezza e della contemplazione. Qualcosa che distolga la mente dalle sciocche pretese dei sensi. "E' disdicevole per una signora girare da una locanda all'altra, da un città all'altra senza pace, senza rimedio" direbbe il signor figlio Mariano e avrebbe forse ragione.
Quel correre, quel vagare, quel patire ogni fermata, ogni attesa, non sarà un avvertimento di fine? entrare nell'acqua del fiume, prima con la punta delle scarpe, poi con le caviglie e infine con le ginocchia, con il petto, con la gola. L'acqua non è fredda. Non sarebbe difficile farsi inghiottire da quel turbinio di correnti odorose di foglie marce.
Ma la voglia di riprendere il cammino è più forte. Marianna ferma lo sguardo sulle acque giallognole, gorgoglianti e interroga i suoi silenzi. Ma la risposta che ne riceve è ancora una domanda. Ed è muta.

PIER PAOLO PASOLINI, RAGAZZI DI VITA, 1955
CAP. 1 Il Ferrobedò
E sotto er monumento de Mazzini…
Canzone popolare

Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante. Appena finito il sermoncino del Vescovo, Don Pizzuto e due tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei ragazzi che s’inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto si sentiva rodere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa vado,» fece il Riccetto, «tengo fame.» «Vie’ a casa mia, no, a fijo de na mignotta,» gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo.» Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull’asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c’era silenzio, ma era carico come una mina. Il Riccetto s’andò a cambiare.
Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d’immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s’imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini. Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza o d’un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare s’aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette regolari di legno, dall’altra i magazzini. Il Riccetto col branco di gente attraversò il Ferrobedò quant’era lungo, in mezzo alla folla urlante, e giunse davanti a una delle casette. Ma lì c’erano quattro Tedeschi che non lasciavano passare. Accosto la porta c’era un tavolino rovesciato: il Riccetto se l’incollò e corse verso l’uscita. Appena fuori incontrò un giovanotto che gli disse: «Che stai a fa?» «Me lo porto a casa, me lo porto,» rispose il Riccetto. «Vie’ con me, a fesso, che s’annamo a prenne la robba più mejo.» 
«Mo vengo,» disse il Riccetto. Buttò il tavolino e un altro che passava di lì se lo prese.
Col giovanotto rientrò nel Ferrobedò e si spinse nei magazzini: lì presero un sacco di canapetti. Poi il giovane disse: «Vie’ qqua a incollà li chiodi.» Così tra i canapetti, i chiodi e altre cose, il Riccetto si fece cinque viaggi di andata e ritorno a Donna Olimpia. Il sole spaccava i sassi, nel pieno del dopopranzo, ma il Ferrobedò continuava a esser pieno di gente che faceva a gara coi camion lanciati giù per Trastevere, Porta Portese, il Mattatoio, San Paolo, a rintronare l’aria infuocata. Al ritorno dal quinto viaggio il Riccetto e il giovanotto videro presso al recinto, tra due casette, un cavallo col carro. S’accostarono per vedere se si poteva tentare il colpaccio. Nel frattempo il Riccetto aveva scoperto in una casetta un deposito di armi e s’era messo un mitra a tracolla e due pistole alla cintola. Così armato fino ai denti montò in groppa al cavallo.
Ma venne un Tedesco e li cacciò via. Mentre che il Riccetto viaggiava coi sacchi di canapetti su e giù da Donna Olimpia ai magazzini, Marcello stava cogli altri maschi nel caseggiato al Buon Pastore. La vasca formicolava di ragazzi che si facevano il bagno schiamazzando. Sui prati sporchi tutt’intorno altri giocavano con una palla.
Agnolo chiese: «Addò sta er Riccetto?»
«È ito a fasse ‘a comunione, è ito,» gridò Marcello.
«L’animaccia sua!» disse Agnolo.
«Mo starà a pranzo dar compare suo,» aggiunse Marcello.
Lì su alla vasca del Buon Pastore non si sapeva ancora niente. Il sole batteva in silenzio sulla Madonna del Riposo, Casaletto e, dietro, Primavalle. Quando tornarono dal bagno passarono per il Prato, dove c’era un campo tedesco. Essi si misero a osservare, ma passò di lì una motocicletta con la carrozzella, e il Tedesco sulla carrozzella urlò ai maschi: «Rausch, zona infetta.» Lì presso ci stava l’Ospedale Militare. «E a noi che ce frega?» gridò Marcello: la motocicletta intanto aveva rallentato, il Tedesco saltò giù dalla carrozzella e diede a Marcello una pizza che lo fece rivoltare dall’altra parte. Con la bocca tutta gonfia Marcello si voltò come una serpe e sbroccolando con i compagni giù per la scarpata, gli fece una pernacchia: nel fugge che fecero, ridendo e urlando, arrivarono diretti fino davanti al Casermone. Lì incontrarono degli altri compagni. «E che state a ffà?» dissero questi, tutti sporchi e sciammannati.
«Perché?» chiese Agnolo, «che c’è da fà?» «Annate ar Ferrobedò, si volete vede quarcosa.» Quelli c’andarono di fretta e appena arrivati si diressero subito in mezzo alla caciara verso l’officina meccanica. «Smontamo er motore,» gridò Agnolo. Marcello invece uscì dall’officina meccanica e si trovò solo in mezzo alla baraonda, davanti alla buca del catrame. Stava per caderci dentro, e affogarci come un indiano nelle sabbie mobili, quando fu fermato da uno strillo: «A Marcè, bada, a Marcè!» Era quel fijo de na mignotta del Riccetto con degli altri amici. Così andò in giro con loro. Entrarono in un magazzino e fecero man bassa di barattoli di grasso, di cinghie di torni e di ferraccio. Marcello ne portò a casa mezzo quintale e gettò la merce in un cortiletto, dove la madre non la potesse vedere subito. Era dal mattino che non rincasava: la madre lo menò. «Addò sei ito, disgrazziato», gli gridava crocchiandolo. «So’ ito a famme er bagno, so’ ito,» diceva Marcello ch’era un po’ storcinato, e magro come un grillo, cercando di parare i colpi. Poi venne il fratello più grosso e vide nel cortiletto il deposito. «Fregnone,» gli gridò, «sta a rubbà sta mercanzia, sto fijo de na mignotta.» Così Marcello ridiscese al Ferrobedò col fratello, e questa volta portarono via da un vagone copertoni di automobile. Scendeva già la sera e il sole era più caldo che mai: già il Ferrobedò era più affollato d’una fiera, non ci si poteva più muovere. Ogni tanto qualcuno gridava: «Fuggi, fuggi, ce stanno li Tedeschi», per fare scappare gli altri e rubare tutto da solo. Il giorno dopo il Riccetto e Marcello, che c’avevano preso gusto, scesero insieme alla Caciara, i Mercati Generali, che erano chiusi. Tutt’intorno girava una gran massa di gente e dei Tedeschi, che camminavano avanti e indietro sparando in aria. Ma più che i Tedeschi a impedire l’entrata e a rompere il c… erano gli Apai. La folla però cresceva sempre più, premeva contro i cancelli, baccajava, urlava, diceva i morti. Cominciò l’attacco e anche quei fetenti degli Italiani lasciarono perdere. Le strade intorno ai Mercati erano nere di gente, i Mercati vuoti come un cimitero, sotto un sole che li sgretolava: appena aperti i cancelli, si riempirono in un momento. Ai Mercati Generali non c’era niente, manco un torso di cavolo. La folla si mise a girare pei magazzini, sotto le tettoie, negli spacci, ché non si voleva rassegnare a restare a mani vuote. Finalmente un gruppo di giovanotti scoprì una cantina che pareva piena: dalle inferriate si vedevano dei mucchi di copertoni e di tubolari, tele incerate, teloni, e, nelle scansie, delle forme di formaggio. La voce si sparse subito: cinque o seicento persone si scagliarono dietro il gruppo dei primi. La porta fu sfondata, e tutti si buttarono dentro, schiacciandosi. Il Riccetto e Marcello erano in mezzo. Vennero ingoiati per il risucchio della folla, quasi senza toccar terra coi piedi, attraverso la porta. Si scendeva giù per una scala a chiocciola: la folla di dietro spingeva, e delle donne urlavano mezze soffocate. La scaletta a chiocciola straboccava di gente. Una ringhiera di ferro, sottile, cedette, si spaccò, e una donna cadde giù urlando e sbatté la testa in fondo contro uno scalino. Quelli rimasti fuori continuavano a spingere. «È morta,» gridò un uomo in fondo alla cantina. «È morta,» si misero a strillare spaventate delle donne; non era possibile né entrare né uscire. Marcello continuava a scendere gli scalini. In fondo fece un salto scavalcando il cadavere, si precipitò dentro la cantina e riempì di copertoni la sporta insieme agli altri giovani che prendevano tutto quello che potevano. Il Riccetto era scomparso, forse era riuscito fuori. La folla si era dispersa. Marcello tornò a scavalcare la donna morta e corse verso casa. Al Ponte Bianco c’era la milizia. Lo fermarono e gli presero la roba. Ma lui non si allontanò da lì e si mise in disparte avvilito con la sporta vuota. Dalla Caciara poco dopo salì al Ponte Bianco pure il Riccetto. «Mbè?» gli fece. «M’ero preso li copertoni e mo me l’hanno fregati,» rispose Marcello con la faccia nera. «Ma che stanno a fà sti cojoni, ma perché nun se fanno li c… sua!» gridò il Riccetto. Dietro il Ponte Bianco non c’erano case ma tutta una immensa area da costruzione, in fondo alla quale, attorno al solco del viale dei Quattro Venti, profondo come un torrente, si stendeva calcinante Monteverde. Il Riccetto e Marcello si sedettero sotto il sole su un prato lì presso, nero e spelato, a guardare gli Apai che fregavano la gente. Dopo un po’ però giunse al Ponte il gruppo dei giovanotti coi sacchi pieni di formaggi. Gli Apai fecero per fermarli, ma quelli li presero di petto, cominciarono a litigare di brutto con certe facce che gli Apai pensarono ch’era meglio lasciar perdere: lasciarono ai giovanotti la roba loro, e restituirono pure a Marcello e agli altri che s’erano accostati di brutto quello che gli avevano fregato. Saltando dalla soddisfazione e facendo i calcoli di quello che c’avrebbero guadagnato il Riccetto e Marcello presero la strada di Donna Olimpia, e pure tutti gli altri si dispersero. Al Ponte Bianco, con gli Apai, restò solo l’odore della zozzeria riscaldata dal sole. […]

PRIMO LEVI, IL SISTEMA PERIODICO, 1975
“CARBONIO”
Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato
di chimica: la mia presunzione non giunge a tanto, “ma voix est faible, et même
un peu profane”. Non è neppure un’autobiografia, se non nei punti parziali e
simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia
in qualche modo è pure. È, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di
un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga. […]
Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva
molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio-
E’ lecito parlare di un “certo” atomo di carbonio? Per il chimico esiste qualche dubbio, perché non si conoscono fino ad oggi (1970) tecniche che consentano di
vedere, o comunque isolare, un singolo atomo; nessun dubbio esiste per il narratore, il quale pertanto si dispone a narrare. Il nostro personaggio giace dunque
da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d’ossigeno e a uno di calcio,
sotto forma di roccia calcarea3: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle
ma la ignoreremo. Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre
variazioni di temperatura, giornaliere e stagionali. […]
Ma appunto per la fortuna di chi racconta, che in caso diverso avrebbe finito di
raccontare, il banco calcareo di cui l’atomo fa parte giace in superficie. Giace alla
portata dell’uomo e del suo piccone (onore al piccone e ai suoi più moderni equivalenti: essi sono tutt’ora i più importanti intermediari nel millenario dialogo fra
gli elementi e l’uomo): in un qualsiasi momento, che io narratore decido per puro
arbitrio essere nell’anno 1840, un colpo di piccone lo staccò e gli diede l’avvio
verso il forno a calce, precipitandolo nel mondo delle cose che mutano. Venne
arrostito affinché si separasse dal calcio; lui, tuttora fermamente abbarbicato a due
dei tre suoi compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell’aria.
La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa.
Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu respirato
da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue
ricco, e fu espulso. Si sciolse per tre volte nell’acqua del mare, una volta nell’acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni,
ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese
di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell’avventura organica.
Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se
stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla
terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il
carbonio è l’elemento chiave della sostanza vivente […]
L’atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano
allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell’anno 1848, lungo un filare di
viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di essere inchiodato
da un raggio di sole6. Se qui il mio linguaggio si fa impreciso ed allusivo, non è
solo per mia ignoranza: questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a
tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato ancora
descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto
esso è diverso da quell’altra chimica “organica” che è opera ingombrante, lenta e
ponderosa dell’uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata “inventata” due
o tre miliardi d’anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante […]
Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili) molecole di
azoto e ossigeno. Aderisce a una grossa e complicata molecola che lo attiva, e
simultaneamente riceve il decisivo messaggio dal cielo sotto la forma folgorante
di un pacchetto di luce solare: in un istante, come un insetto preda del ragno,
viene separato dal suo ossigeno, combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed
infine inserito in una catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita.
Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla temperatura e pressione dell’atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare altrettanto saremo
“sicut Deus”, ed avremo anche risolto il problema della fame nel mondo. […]
Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti;
si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo
la finzione del racconto mi permette di distinguerli. è una bella struttura ad anello,
un esagono quasi regolare, che però va soggetto a complicati scambi ed equilibri
con l’acqua in cui sta sciolto; perché ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa
della vita, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le sostanze che
sono destinate a (stavo per dire “desiderano”) trasformarsi. […]
È entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara: un destino
né carne né pesce, mediano, che lo prepara ad un primo contatto con il mondo
animale, ma non lo autorizza alla responsabilità più alta, che è quella di far parte
di un edificio proteico9. Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla
foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo
precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perché non lo sapremmo ridurre in
parole) alla fermentazione alcoolica, e giunse al vino senza mutare natura.
È destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere ossidato. Ma
non fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel fegato per più di una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo
improvviso; sforzo che fu costretto a fare la domenica seguente, inseguendo un
cavallo che si era adombrato. Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi
istanti il gomitolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trascinato dalla
corrente del sangue fino ad una fibrilla muscolare11 di una coscia, e qui brutalmente spaccato in due molecole di acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo più tardi, qualche minuto dopo, l’ansito dei polmoni poté procurare l’ossigeno
necessario ad ossidare con calma quest’ultimo. Così una nuova molecola di anidride carbonica ritornò all’atmosfera, ed una parcella dell’energia che il sole
aveva ceduta al tralcio passò dallo stato di energia chimica a quello di energia
meccanica e quindi si adagiò nell’ignava14 condizione di calore, riscaldando
impercettibilmente l’aria smossa dalla corsa e il sangue del corridore. […]
Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio obbligato, anche questo: se ne possono immaginare o inventare altri, ma sulla terra è
così. Di nuovo vento, che questa volta porta lontano: supera gli Appennini e
l’Adriatico, la Grecia, l’Egeo e Cipro: siamo sul Libano e la danza si ripete.
L’atomo di cui ci occupiamo è ora intrappolato in una struttura che promette di
durare a lungo: è il tronco venerabile di un cedro15, uno degli ultimi; è ripassato
per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene,
come il grano di un rosario, ad una lunga catena di cellulosa. Non è più la fissità
allucinante e geologica della roccia, non sono più i milioni di anni, ma possiamo
bene parlare di secoli, perché il cedro è un albero longevo. È in nostro arbitrio
abbandonarvelo per un anno o per cinquecento: diremo che dopo vent’anni
(siamo nel 1868) se ne occupa un tarlo16. Ha scavato la sua galleria fra il tronco
e la corteccia, con la voracità cieca e ostinata della sua razza; trapanando è cresciuto, il suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, ha ingoiato e incastonato in
se stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in primavera
sotto forma di brutta farfalla grigia che ora si sta asciugando al sole, frastornata e
abbagliata dallo splendore del giorno: lui è là, in uno dei mille occhi dell’insetto,
e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio.
L’insetto viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo cadavere giace nel
sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina18 resiste a lungo,
quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è
sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una “cosa”, ma
la morte degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al
lavoro gli onnipresenti, gli instancabili e invisibili becchini del sottobosco, i
microrganismi dell’humus. La corazza, con i suoi occhi ormai ciechi, è lentamente
disintegrata, e l’ex bevitore, l’ex cedro, ex tarlo, ha nuovamente preso il volo.
Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed a giustificazione di questo intervallo così lungo rispetto alla misura umana faremo notare
che esso è assai più breve della media: questa, ci si assicura, è di duecento anni.
Ogni duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali
ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe
materie plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta
della fotosintesi.  Esistono altre porte? Sì, alcune sintesi create dall’uomo; sono
un titolo di nobiltà per l’uomo-fabbro, ma finora la loro importanza quantitativa
è trascurabile. Sono porte ancora molto più strette di quella del verde vegetale:
consapevolmente o no, l’uomo non ha cercato finora di competere con la natura
su questo terreno, e cioè non si è sforzato di attingere dall’anidride carbonica
dell’aria il carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per riscaldarsi, e
per i cento altri bisogni più sofisticati della vita moderna. Non lo ha fatto perché
non ne ha avuto bisogno: ha trovato, e tuttora trova (ma per quanti decenni ancora?) gigantesche riserve di carbonio già organicato, o almeno ridotto. Oltre al
mondo vegetale ed animale, queste riserve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosintetiche
compiute in epoche lontane, per cui si può bene affermare che la fotosintesi non
è solo l’unica via per cui il carbonio si fa vivente, ma anche la sola per cui l’energia del sole si fa utilizzabile chimicamente.
Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. […] È di
nuovo tra noi, in un bicchiere di latte. È inserito in una lunga catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono accetti al corpo umano. Viene ingoiato: e poiché ogni struttura vivente alberga una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, e i frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene a un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora
descritto. È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di
no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste
volute che sono segni; un doppio scatto, in su e in giù, fra due livelli d’energia
guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.


ITALO CALVINO “TUTTO IN UN PUNTO” , IN LE COSMICOMICHE. 1965
«Si capisce che si stava tutti lì», fece il vecchio Qfwfq, «e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?» Ho detto “pigiati come acciughe” tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l’aspetto del carattere, perché quando non c’è spazio, avere sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante. Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall’altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera. Ognuno finiva per avere rapporti solo con un ristretto numero di conoscenti.
Quelli che ricordo io sono soprattutto la signora Ph(i)Nko, il suo amico De XuaeauX, una famiglia di immigrati, certi Z’zu, e il signor Pbert Pberd che ho già nominato. C’era anche una donna delle pulizie – “addetta alla manutenzione”, veniva chiamata –, una sola per tutto l’universo, dato l’ambiente così piccolo. A dire il vero, non aveva niente da fare tutto il giorno, nemmeno spolverare – dentro un punto non può entrarci neanche un granello di polvere –, e si sfogava in continui pettegolezzi e piagnistei. Già con questi che vi ho detto si sarebbe stati in soprannumero; aggiungi poi la roba che dovevamo tenere lì ammucchiata: tutto il materiale che sarebbe poi  servito, in un futuro imprecisato  a formare l’universo, smontato e concentrato in maniera che non riuscivi a riconoscere quel che in seguito sarebbe andato a far parte dell’astronomia (come la nebulosa  d’Andromeda) da quel che era destinato alla geografia (per esempio i Vosgi ) o alla chimica (come certi isotopi del berillo). In più si urtava sempre nelle masserizie della famiglia Z’zu, brande, materassi, ceste; questi Z’zu, se non si stava attenti, con la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria. Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z’zu, a cominciare da quella definizione di “immigrati”, basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, loro fossero venuti dopo. Che questo fosse un pregiudizio senza fondamento, mi par chiaro, dato che non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare, ma c’era chi sosteneva che il concetto di “immigrato” poteva esser inteso allo stato puro, cioè indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa dell’ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi, badate: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi s’incontrano – alla fermata d’un autobus, in un cinema, in un congresso internazionale di dentisti –, e si mettono a ricordare di allora. Ci salutiamo – alle volte è qualcuno che riconosce me, alle volte sono io a riconoscere qualcuno –, e subito prendiamo a domandarci dell’uno e dell’altro (anche se ognuno ricorda solo qualcuno di quelli ricordati dagli altri), e così si riattacca con le beghe di un tempo, le malignità, le denigrazioni.
Finché non si nomina la signora Ph(i)Nko, – tutti i discorsi vanno sempre a finir lì –, e allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nko, la sola che nessuno di noi ha dimenticato e che tutti rimpiangiamo. Dove è finita? Da tempo ho smesso di cercarla: la signora Ph(i)Nko, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un altro. Sia ben chiaro, a me la teoria che l’universo, dopo aver raggiunto un estremo di rarefazione, tornerà a condensarsi, e che quindi ci toccherà di ritrovarci in quel punto per poi ricominciare, non mi ha mai persuaso. Eppure tanti di noi non fan conto che su quello, continuano a far progetti per quando si sarà di nuovo tutti lì. Il mese scorso, entro al caffè qui all’angolo e chi vedo? Il signor Pbert Pberd. «Che fa di bello? Come mai da queste parti?» Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. È rimasto tal quale, col suo dente d’argento, e le bretelle a fiori. «Quando si tornerà là», mi dice, sottovoce, la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa gente rimanga fuori... Ci siamo capiti: quegli Z’zu...» Avrei voluto rispondergli che questo discorso l’ho sentito già fare a più d’uno di noi, che aggiungeva: «ci siamo capiti... il signor Pbert Pberd...» Per non lasciarmi portare su questa china, m’affrettai a dire: «E la signora Ph(i)Nko, crede che la ritroveremo?» «Ah, sì... Lei sì...» fece lui, imporporandosi. Per tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci ancora insieme alla signora Ph(i)Nko. (È così anche per me che non ci credo). E in quel caffè, come succede sempre, ci mettemmo a rievocare lei, commossi, e anche l’antipatia del signor Pbert Pberd sbiadiva, davanti a quel ricordo.
Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto con il suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c’è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta di andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. Fosse stata un’altra persona, chissà quante cose le si sarebbero dette dietro. La donna delle pulizie era sempre lei a dare la stura alle maldicenze, e gli altri non si facevano pregare a imitarla. Degli Z’zu, tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figlie fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca insinuazione. Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei era insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l’impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più? E tutto questo, così come era vero per me valeva pure per ciascuno degli altri. E per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente. Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: «Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!» E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni  galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: «... le tagliatelle, ve’, ragazzi!» il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva in una raggiera di distanze d’anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo (il signor Pbert Pberd fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore, lei signora Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace d’uno slancio generoso, il primo «Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!», un vero slancio d’amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione universale, e all’universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko, sparse per i Continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla.

ITALO CALVINO LE CITTA’ INVISIBILI 1972
Ersilia
A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non ci si può piú passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili. Dalla costa d'un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia guardano l'intrico di fili tesi e pali che s'innalza nella pianura. È quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente. Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figura simile che vorrebbero piú complicata e insieme piú regolare dell'altra. Poi l' abbandonano e trasportano ancora piú lontano sé e le case. Cosí viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le rovine delle città abbandonate, senza le mura che non durano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.

Irene

Irene è la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell'altipiano nell'ora che le luci s'accendono e per l'aria limpida si distingue laggiú in fondo la rosa dell'abitato: dov'è piú densa di finestre, dove si dirada in viottoli appena illuminati, dove ammassa ombre di giardini, dove innalza torri con i fuochi dei segnali; e se la sera è brumosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna lattigginosa al piede dei calanchi. I viaggiatori dell'altipiano, i pastori che transumano gli armenti, gli uccellatori che sorvegliano le reti, gli eremiti che colgono radicchi, tutti guardano in basso e parlano di Irene. Il vento porta a volte una musica di grancasse e trombe, lo scoppiettio dei mortaretti nella luminaria d'una festa; a volte lo sgranare della mitraglia, l'esplosione d'una polveriera nel cielo giallo degli incendi appiccati dalla guerra civile. Quelli che guardano di lassù fanno congetture su quanto sta accadendo nella città, si domandano se sarebbe bello o brutto trovarsi a Irene quella sera. Non che abbiano intenzione d'andarci - e comunque le strade che calano a valle sono cattive - ma Irene calamita sguardi e pensieri di chi sta là in alto. A questo punto Kublai Kan s'aspetta che Marco parli d'Irene com'è vista da dentro. E Marco non può farlo: quale sia la città che quelli dell'altipiano chiamano Irene non è riuscito a saperlo; d'altronde poco importa: a vederla standoci in mezzo sarebbe un'altra città; Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un'altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s'arriva la prima volta, un'altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene.

Ottavia
Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città - ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per  centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo. Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città.  Sanno  che più di tanto la rete non regge.

Fedora
Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trovò più la base su cui sorgere). Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.

LEONIA
La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello di apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove o diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare. Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalla città, certo ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, e a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne. Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri. Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo di frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.

Finale del romanzo
L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del sole, Oceana, Tamoè, Armonia, New-Lanark, Icaria.Chiese a Marco Kublai:-Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.-Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la cittàperfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tunon devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle cittàche minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butwa, Brave New World. Dice:-Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.E Polo:-L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

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