BRANI DI TESTI DI
PRIMO NOVECENTO
INDICE
SVEVO La coscienza di Zeno (romanzo
psicologico)
PIRANDELLO Uno nessuno centomila
(romanzo psicologico); Il treno ha fischiato.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno,
1923
Prefazione
Io sono il dottore di cui in questa
novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi
s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui
entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio
paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi
arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in
tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un
buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché
mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato
sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia
lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli
dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari
che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava
tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli
dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!...
Dottor S.
Preambolo
Vedere la mia infanzia?
Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero
arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli
d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
Il dottore mi raccomandò
di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose
per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’
d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato
il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per
facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è
difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
Dopo pranzato, sdraiato
comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La
mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio
pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua
sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito
di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché
ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed
offusca il passato.
Ieri avevo tentato il
massimo abbandono. L’esperimento finí nel sonno piú profondo e non ne ebbi
altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto
durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per
sempre.
Mercé la matita che ho
in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non
possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su
una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove
vada e perché sia ora capitata qui!
Nel dormiveglia ricordo
che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la
prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei
essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche
settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo
perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro
che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che
vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua
intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu
sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti
ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla
ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla
malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È
impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va facendo
una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe
probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono
essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo di persone ch’io conosco. I
minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono
tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle
immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.
Cap
Moglie e amante
Nella mia vita ci furono
varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità.
Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di
nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una
scoperta che mi stupí: io amavo Augusta com’essa amava me. Dapprima diffidente,
godevo intanto di una giornata e m’aspettavo che la seguente fosse tutt’altra
cosa. Ma una seguiva e somigliava all’altra, luminosa, tutta gentilezza di
Augusta ed anche - ciò ch’era la sorpresa - mia. Ogni mattina ritrovavo in lei
lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era
amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo
zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato
non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo. E vedendomi
stupito, Augusta mi diceva: - Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il
matrimonio è fatto cosí? Lo sapevo pur io che sono tanto piú ignorante di te!
Non so piú se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza,
la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute
personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella
salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La
lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli
scarsi capelli di Augusta. Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con
la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del
sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su
questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e
nell’ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal
fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. Di
fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si
trattava di spiritismo. Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la
fede nella vita. Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto
risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicessi tale: si
sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi
amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché!
Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai
ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque
ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo
tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi
del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non
rivedersi mai piú per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa
fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una
verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi
ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché
questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno
guardarmi dall’infettare chi a me s’era confidato.
Anche perciò, nello
sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose
cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal
di mare! Tutt’altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro
posto. E queste cose immobili avevano un’importanza enorme: l’anello di
matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio
che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun
caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m’adattavo di
mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle
del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto. Di
domenica essa andava a Messa ed io ve l’accompagnai talvolta per vedere come
sopportasse l’immagine del dolore e della morte. Per lei non c’era, e quella
visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi
giorni festivi ch’essa sapeva a mente. Niente di piú, mentre se io fossi stato
religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C’erano un mondo di autorità anche quaggiú che la rassicuravano. Intanto quella
austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io
feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi
v’erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per
salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne
usavo ogni giorno di quell’autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il
mio atroce destino quando la malattia mortale m’avesse raggiunto, mentre lei
credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassú e quaggiú, per lei vi
sarebbe stata la salvezza. Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco
perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio
a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per
guarire.
[…]
Mi ricordo che una sera,
a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo
ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso
improvvisamente s’apre.
Augusta, come sempre,
guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che
sorgeva da una base sucida lasciata all’aria dall’acqua che s’era ritirata; un
campanile che si rifletteva nell’acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con
in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece, nell’oscurità, sentivo, con
pieno sconforto, me stesso.
Cap Psicanalisi
24 Marzo 1916
Dal Maggio dell’anno
scorso non avevo piú toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr.
S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato.
È una domanda curiosa,
ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale
chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede
tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna
che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur
dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare. Intanto
egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece
riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età
abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare
la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene
solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per
il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo
io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e
ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare
anziché persuadere. Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d’importanza
nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da
moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti.
Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una
malattia perché duole. Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio
destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto
col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S. lo
sappia. Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al
principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare.
Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della
guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a
comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero
compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le
persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la
mia fortuna. L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso
un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un
rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero
messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il
patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere
dell’oro. L’oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne
feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in
misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei
acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi
mezzi di cui abbisognavo per quelli. Con grande orgoglio ricordo che il mio
primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso
unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande
d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale
un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico
sapevo con piena certezza che l’incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la
resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe
arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato
della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e
ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera.
Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento
della mia forza e della mia salute. Il dottore, quando avrà ricevuta
quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo
rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non
ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per
prepararmi ad esso! Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di
vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un
poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri
miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è
sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che
abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena
curati. La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto
degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero
spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e
mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo
genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni
metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria
e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo
soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può
appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio
organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra
possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le
sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa
s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo
s’ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il
progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l’occhialuto
uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e
nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si
comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre piú furbo e piú
debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua
debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non
potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno
non ha piú alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con
l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú
forte sparí e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci
vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni
prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita
prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non
basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza
di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale
gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui
giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli
altri un po’ piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro
della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci
sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di
nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila, 1926 (in
volume)
I.
Mia moglie e il mio naso.
–
Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti
allo specchio. – Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in
questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui
qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie,
placidamente: – Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Avevo
ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello,
almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per
cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e
sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme:
che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato
castigo. Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e
aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende,
me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, 5 cosí... –
Che altro? Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due
accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú
sporgente dell’altra; e altri difetti... – Ancora? Eh sí, ancora: nelle mani,
al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú
arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino. Dopo un attento esame dovetti
riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per
dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia
moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con
essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo. Sfido a non irritarsi, ricevendo
come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato.
Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né
d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti,
ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai
cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle
orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per
aver conto che li avevo difettosi. – Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli?
Fatte apposta per scoprire i difetti del marito. 6 Ecco, già – le mogli, non
nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a
ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di
riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per
torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori
ne paresse nulla. – Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.[…]
IV.
Non conclude.
Anna
Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu
anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale,
allorché, chiamato a 200 fare la mia deposizione, mi videro comparire col
berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Non mi sono piú
guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere
che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che
avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a
giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi
vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai
certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che
avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente,
con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi
ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Nessun nome. Nessun
ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa;
se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome
non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non
definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe
funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in
pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome.
Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non
conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie
nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che
leggo, il 201 vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. L’ospizio sorge in
campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora
voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si
scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi
il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate
sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra
ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri
d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al
sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo
silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani
cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga
appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere
e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non
vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per
apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua
apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per
attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro
mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge,
a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane
le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sona202 re, che forse ne fremono
di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole
caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte
sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo
bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché
muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú
in me, ma in ogni cosa fuori.
Luigi
Pirandello, Novelle per un anno, 1914:
“Il treno ha fischiato”
*Farneticava. Principio di febbre
cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio,
che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
Morrà? Impazzirà?
Mah!
Morire, pare di no...
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica...
Povero Belluca!
*E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
*Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
*Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.
*Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.
Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca!
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere.
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
Morrà? Impazzirà?
Mah!
Morire, pare di no...
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica...
Povero Belluca!
*E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
*Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
*Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.
*Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.
Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca!
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere.
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
*Seguitava ancora, qua, a parlare di quel
treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano,
nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
*Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:
Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.
Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
*Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:
Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.
*Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato
ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
"A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, I'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima. ''
"A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, I'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima. ''
*Non avevo veduto mai un uomo vivere
come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri
inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse
resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva
Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la
sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di
quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non
trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma
tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte,
pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a
cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che
ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare
in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste
condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
*Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.
S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.
C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita " impossibile ", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... Ie foreste...
E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...
*Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.
S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.
C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita " impossibile ", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... Ie foreste...
E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...
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