BRANI DI TESTI DI PRIMO NOVECENTO


BRANI DI TESTI DI PRIMO NOVECENTO

INDICE
SVEVO La coscienza di Zeno  (romanzo psicologico)
PIRANDELLO  Uno nessuno centomila (romanzo psicologico); Il treno ha fischiato.


Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923

Prefazione

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!...
Dottor S.

Preambolo

Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finí nel sonno piú profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!
Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.

Cap  Moglie e amante

Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità. Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta che mi stupí: io amavo Augusta com’essa amava me. Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e m’aspettavo che la seguente fosse tutt’altra cosa. Ma una seguiva e somigliava all’altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch’era la sorpresa - mia. Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo. E vedendomi stupito, Augusta mi diceva: - Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto cosí? Lo sapevo pur io che sono tanto piú ignorante di te! Non so piú se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta. Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo. Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita. Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicessi tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai piú per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall’infettare chi a me s’era confidato.
Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano. Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt’altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano un’importanza enorme: l’anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m’adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto. Di domenica essa andava a Messa ed io ve l’accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l’immagine del dolore e della morte. Per lei non c’era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch’essa sapeva a mente. Niente di piú, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno. C’erano un mondo di autorità anche quaggiú che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v’erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell’autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m’avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassú e quaggiú, per lei vi sarebbe stata la salvezza. Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire. 
[…]
Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s’apre.
Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all’aria dall’acqua che s’era ritirata; un campanile che si rifletteva nell’acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso.

Cap Psicanalisi
24 Marzo 1916
Dal Maggio dell’anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato.
È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare. Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole. Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S. lo sappia. Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli. Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute. Il dottore, quando avrà ricevuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso! Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre piú furbo e piú debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha piú alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.





Luigi Pirandello,  Uno, nessuno, centomila, 1926 (in volume)

I.                Mia moglie e il mio naso.

– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. – Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo. Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, 5 cosí... – Che altro? Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e altri difetti... – Ancora? Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino. Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo. Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi. – Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito. 6 Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla. – Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.[…]


IV. Non conclude.

Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a 200 fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Non mi sono piú guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il 201 vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sona202 re, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.

Luigi Pirandello, Novelle per un anno, 1914: “Il treno ha fischiato

*Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
Morrà? Impazzirà?
Mah!
Morire, pare di no...
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica...
Povero Belluca!
*E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.

*Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
*Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.
*Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.
Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca!
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere.
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
*Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
*Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:
Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.
*Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
"A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, I'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima. ''
*Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
*Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.
S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.
C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita " impossibile ", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... Ie foreste...
E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

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