-BRANI
DA TESTI DEL SECONDO OTTOCENTO-
INDICE:
VERGA,
FANTASTICHERIA E LIBERTA’ (VERISMO)
SERAO:
IL VENTRE DI NAPOLI; PALCO BORGHESE
(VERISMO)
D’ANNUNZIO:
IL PIACERE (ESTETISMO)
Giovanni
Verga, “Fantasticheria”, in Vita dei campi (1880)
Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza,
voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: - Vorrei starci un
mese laggiù! -
Noi vi
ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott'ore; i terrazzani che
spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci
sareste rimasta un par d'anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere
eternamente del verde e dell'azzurro, e di contare i carri che passavano per
via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della
vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che
non spuntava mai. In quelle quarantott'ore facemmo tutto ciò che si può fare ad
Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli
scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle
bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima,
gettando le reti tanto per far qualche cosa che a' barcaiuoli potesse parer
meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l'alba ci sorprese in cima al
fariglione - un'alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi,
striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come
una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate
sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si
stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la
vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. - Avevate un
vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell'alba.
- Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo
in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni
sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell'altra stranezza di
trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora,
di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi
avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: - Non capisco
come si possa vivere qui tutta la vita -.
Eppure, vedete,
la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di
entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra
quegli scogli giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le
mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci
aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole
sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal
di mare anch'esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a
Napoli.
È una cosa
singolare; ma forse non è male che sia così - per voi, e per tutti gli altri
come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare»,
dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più
dura del pane che mangiano - quando ne mangiano - giacché il mare non è sempre
gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in
cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva,
colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha
desinato. In quei giorni c'è folla sull'uscio dell'osteria, ma suonano pochi
soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la
miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il
diavolo in corpo.
Di tanto in tanto
il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona
spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di
meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso
luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai
trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche,
tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del
viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera
del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque
minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al
loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per
poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna
farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare
col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete
metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita
dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse
vi divertirà.
Noi siamo stati
amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina.
Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per
chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant'è, mi son
rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna
cui solevate far l'elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in
fila sul panchettino dinanzi all'uscio.
Ora il
panchettino non c'è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha
una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po' più in là a
stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che
barricano il vecchio Posto della guardia nazionale; ed io, girellando, col
sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com'è, vi aveva vista
passare, bianca e superba.
Non andate in
collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i
lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi,
disparati, raccolti qua e là, non so più dove - forse alcuni son ricordi di
sogni fatti ad occhi aperti - e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente,
mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose,
la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so
che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino
dell'adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso
in capo alla cronaca elegante - sazia così, da inventare il capriccio di vedere
il vostro nome sulle pagine di un libro.
Quando scriverò
il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così
lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi
faranno l'effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del
vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi
ritornerete, e siederemo accanto un'altra volta, a spinger sassi col piede, e
fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita
altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel
cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, - o per
distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o
di febbri - oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la
moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al
teatro!
[…]
- Insomma
l'ideale dell'ostrica! - direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica! e noi non
abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati
ostriche anche noi -.
Per altro il
tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li
ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa
rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della
famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la
circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e
rispettabilissime anch'esse.
Sembrami che le
irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace
serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati
di generazione in generazione. - Sembrami che potrei vedervi passare, al gran
trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi
tranquillamente.
Forse perché ho
troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è
parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli,
nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle
tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che
deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che
qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba
consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più
incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza
dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il
mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.
- E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse. Per le
ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle
insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
Giovanni
Verga, Libertà, in “Novelle
rusticane” 1883
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori,
suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la
libertà! -
Come il mare in
tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini,
davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche;
le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
- A te prima,
barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli
altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle
unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco
epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!
- A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A
te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due
tarì al giorno! -
E il sangue che
fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue!
- Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -
Don Antonio
sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla
faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? -
Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci
sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu pure! - Al
reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir
messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in
peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre
gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le
strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa,
ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case
e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita
affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia.
- Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo
speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale
tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa.
Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato
tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide
cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa
minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse
nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo
sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
Ma il peggio
avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo
come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due
o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: -
Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati
senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio
come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone
sulla guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora
grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo
padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran
colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di
cinquant'anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli
sarebbe stato notaio, anche lui! -
Non importa! Ora
che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto.
Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie
che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci
ancora, agitando le braccia scarne, strillando l'ira in falsetto, colle carni
tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio
colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla
povera gente! - Te'! Te'! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove,
lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate!
e quanti anelli d'oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa
aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene,
dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La
folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere.
Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E
sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti.
Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima
volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono.
Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le
stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni,
avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora
colle carni bianche anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti,
gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli
si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s'era
rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca
colla mano perché non gridasse, pazza. L'altro figliolo voleva difenderla col
suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio
tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un
altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della
ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro
fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano,
gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano
che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire
nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel
carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla
digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza
mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi,
stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di
notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume.
Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con
un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e
mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una
domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era
rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far
capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando
a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti,
si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di
domenica, come i cani! - Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si
sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal
campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura
gialla di luglio.
E come l'ombra
s'impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto.
Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a
precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui
fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno
fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e
guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per
tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le
prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perito per misurare la terra, e
il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E
se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da
capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare
per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il
taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si
udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente.
Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone,
verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per
schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano
i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte,
colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto
il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero,
innanzi a tutti, solo.
Il generale fece
portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un
padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba,
egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era
l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano,
Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano
inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe
parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato
quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote
del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i
mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i
giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule,
disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre
interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla
scranna, e dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che
non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a
coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li
seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in
mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro,
trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva
gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero
nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre
colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il
lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti
divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il
sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno.
Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le
sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare
lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava
due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco;
se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le
arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel
pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti
gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I
galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la
povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano
dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per
vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di
tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia,
all'uscire dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -.
Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli
correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al
vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi
galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si
persuadevano che all'aria ci vanno i cenci.
Il processo durò
tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché
quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li
conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi
dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i
compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si
diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello
speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in
piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la
sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le
chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la
schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su
una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro
occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici
galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o
ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non
essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la
libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne
andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli
occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che
parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e
disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio,
mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In
galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano
detto che c'era la libertà!... –
Matilde
Serao Il ventre di Napoli 1884
SVENTRARE NAPOLI.
Efficace la frase. Voi non
lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, poichè
voi siete il governo e il governo deve saper tutto. Non sono fatte pel governo,
certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie,
che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle
signore belle e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a
base di golfo e di colline fiorite, di cui noi [p. 2 modifica]abbiamo già fatto
e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi
alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria,
serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di
miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte: il governo a cui arriva la
statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i
rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati;
il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo
che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un
anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e
quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore; quanti mendichi non possono
entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormono in istrada la notte; quanti
nullatenenti e quanti commercianti vi siano; quanto rende il dazio consumo,
quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà [p. 3 modifica]e
quanto renda il lotto. Questa altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo
conosce il governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a
che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio
burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del
paese che tutto conosce e a tutto provvede, perchè siete ministro? […]
Matilde
Serao “Palco borghese”, in Dal vero, 1879
Nei momenti interessanti del
dramma quel palco offriva uno spettacolo degno di ammirazione: quelli che lo
occupavano — undici persone — formavano un gruppo di fisonomie ansiose, di
occhi spalancati, di bocche semiaperte, di corpi abbandonati; il che attestava
qualmente i legittimi e relativi possessori di quei corpi, di quelli occhi, di
quelle bocche, fossero profondamente attenti alla rappresentazione. Schierate
in fila di battaglia; sul davanti, erano quattro fanciulle, volti graziosi,
niente intelligenti, linee superficiali, occhi a fior di testa, capelli
castani: bellezzine borghesi napoletane. La prima aveva fatto un tentativo di
abito Pompadour, mettendo dei nastri rosa sopra un abito azzurro; tentativo
ingenuamente sbagliato, perchè il rosa tendeva al rosso e l’azzurro era troppo
cupo. La seconda portava quella tale toilette, cara alle abitataci di Foria,
dove il giallo si mescola col marrone a furia di losanghe, di strisce, di
pieghe, di maniche differenti: imbroglio inestricabile. La terza si pavoneggiava
in un abito bianco, cucito da lei, adorno di trina lavorata in casa, stirato in
casa, rialzato da nastri multicolori; giusto un anno e mezzo di arretrato sulla
moda. L’ultima infine aveva fatta la felice scelta di una polonese
verde-pisello, capace di dare l’emicrania ad una persona di nervi delicati.
Tutte quattro erano incipriate di quella grossa cipria che lascia delle macchie
bianche, come di gesso; tutte portavano sui capelli nodi di nastro, spilli di
chincaglieria, fiori artificiali; tutte erano cariche di perle false, di
braccialetti in velluto, di lunghi orecchini; erano soffocate dai loro triplici
jabots; portavano guanti troppo corti, con filetti bianchi di dieci anni fa,
mezzo sbottonati; una li aveva nuovi fiammanti, color burro, troppo stretti, e
se li guardava con grande compiacenza, rimanendo immobile per timore
d’insudiciarli.
Dietro, due vecchie; capelli
grigi, treccia finta tutta nera, figure arcigne, labbra calcolatrici, catena di
oro al collo, spillo col ritratto del coniuge — una bambina. In terza linea il
soprabitone nuovo di don Giovambattista Fasanaro, negoziante di pannine e
segretario della sua congregazione, con dentro la rispettabile persona del
proprietario; insieme tre giovanotti: il primo commesso del negozio, il figlio
del droghiere ed il nipote dell’orefice. Tutti tre serrati nel soprabito delle
domeniche, rossi nei colletti troppo alti e troppo duri, fieri della dritta
scriminatura, del fiore che adornava i rispettivi occhielli; tutti tre
pretendenti delle foglie di don Giovambattista. In tutto, dunque, undici: una
borghesia grassa, grossa, beatamente cretina, piena del suo merito, piena di
disprezzo per quello che è fine, per quello che è artistico; un palco borghese
che fioriva alla luce del gas, nel teatro Sannazaro.
⁂
Eppure — o voi che ogni sera
andate in teatro, che vi entrate sbadigliando e ne uscite pallidi di noia, che
non avete più curiosità, e non vi dolete di non averne, imparate — eppure, quel
palco era tutta una storia, tutto un romanzo, quasi un poema. Il borghese
napoletano ama il teatro, ma il suo godimento si raffina quando ci va con un
biglietto regalato: era il caso. Era tempo che un giornalista, capitato laggiù,
ai Lanzieri, per una combinazione strana, come un greco in America; era tempo
che egli aveva promesso un palco al rispettabile negoziante. La famiglia,
all’annunzio, era andata in visibilio; le fanciulle ne sognavano la notte e
pensavano quale abito era conveniente, come dovevano pettinarsi, che figura
avrebbero fatta. Tutte le amiche avevano avuto partecipazione della lieta
novella, si chiedevano consigli, si sostenevano discussioni: una signorina che
abitava di faccia e che aveva avuto la fortuna di vedere il Sannazaro, era
chiamata ogni tanto al balcone per ripetere le più minute spiegazioni. Per otto
giorni non si vedevano per casa che nastri, fiori, sciarpe, veli; non si
udivano che grandi colpi di ferro sulle gonne da insaldare: lo specchio era
consultato ad ogni momento; le sorelle tenevano conciliaboli negli angoli delle
stanze; la cugina, invitata, era commossa per la riconoscenza. Ma il palco non
veniva. Prima si cominciò a scusare il giornalista: poverino, aveva tanta gente
da contentare — e forse attendeva una serata propizia, forse il teatro era
stato sempre pieno. Poi subentrò un po’ di inquietudine: avesse dimenticato — e
i preparativi e gli annunzii alle amiche e le speranze concepite? Infine,
infine tutto è scordato, il cartellino rosso è giunto: terza fila, un po’ in
alto; numero due, un po’ di fianco; ma che importa? si va: tanto basta!
Quel giorno la casa è
sossopra, tutto va di traverso, regna la confusione; le fanciulle sono in
gonnellino corto, i capelli ravvolti nelle cartine; sui letti fanno bella
mostra gli abiti spiegati, i fiori i guanti, i fazzoletti, le mantelline; i
consueti lavori sono abbandonati; è cambiata l’ora del pranzo; non si dorme nel
pomeriggio; il negozio si chiude più presto; don Giambattista dice ai suoi
clienti, spicciandoli in fretta: Scusate, ma stasera vado al teatro con la
famiglia. I tre giovanotti passano un’ora nel salon de coiffure per farsi
radere, pettinare ed arricciare. Si appressa lentamente l’ora; le fanciulle
litigano fra loro: l’una trova brutta l’altra, la terza ha bisogno di spille,
la cugina corre di qua e di là, prestando il suo aiuto, rendendosi utile; le
vecchie brontolano, ma non troppo; la bambina piange, perchè ha un ventaglio
rotto di sei soldi e la sorellina più grande ha confiscato quello bello che le
regalò la matrina; infine dopo molto chiasso, circa tre ore prima della
rappresentazione, ma sempre con la paura di far tardi, tutti sono pronti; le
giovinette danno un’occhiatina allo specchio, don Giovambattista porta via la
chiave di casa e ripete passando al portinaio:
— Giacomino, andiamo al
teatro, si finirà tardi.
Arrivano, le porte sono
ancora chiuse, passeggiano, vedono giungere gli attori, i pompieri, i
carabinieri; appena si aprono le porte, entrano in teatro, è oscuro, sono i
primi — non importa. Ci sono. Con che orgoglio prendono possesso dei loro
posti! Come ammirano tutto! Come esaminano minutamente ogni signora che entra!
E quella sera la Marini
recitava nella Signora dalle camelie.
⁂
Comprendete? Sulla scena la
Marini ride, folleggia, freme, ama, singhiozza, agonizza: e lassù quelle
quattro fanciulle sono attente, commosse, trasportate; questa impallidisce, una
diventa rossa, un’altra fa il viso serio e stringe le labbra come un fanciullo
che abbia bevuto un vino troppo forte; all’ultima scorrono le lagrime e sono
ribevute dalle guancia accaldate. Negli intervalli esse rimangono silenziose,
distratte, quasi stordite — ed intanto guardano una bella figura di donna,
tutta sola in un palco, la guardano sospirose d’invidia pel volto puro e
bianco, per gli occhi ammaliatori, per l’abito di raso, ricco di merletti, pel
fuoco liquido e freddo dei brillanti.
Comprendete? Sulla scena
Margherita muore di amore; le solite frequentatici del Sannazaro, belle
giovinette, eleganti signore, abbonate della prima dispari, non piangono e non
pensano: tutt’al più discutono il valore artistico della Marini e spiegano se
Armando deve essere biondo come Ceresa o bruno come Pasta. Ma le fanciulle
borghesi rimangono pensose; la notte forse non dormono o, peggio forse sognano;
l’indomani hanno il disgusto della loro vita prosaica e senza dramma — e negli
angoli solitarî, a mezza voce, nella penombra, raccontano alle loro amiche la
storia di Margherita.
Ebbene, sarebbe stato meglio
per voi, o buone e stupide fanciulle, di non essere andate a questo teatro. Voi
non aspetta il dramma dell’amore, voi nulla saprete mai di quella passione che
fa più vittime di ogni più crudele epidemia: i placidi mariti, la drogheria,
l’orificeria, i figliuoli, la casa, nulla richieggono di queste lagrime
ardenti, di questi gridi strazianti. Io non so perchè vi hanno condotte a
questo teatro, io non so perchè vi hanno fatto intravvedere un mondo che non
sarà mai il vostro; meglio per voi passare la serata attorno ad un tavolino,
sotto la lampada a petrolio, lavorando l’uncinetto e guardando il fidanzato!
meglio sul terrazzo mentre la luna scintilla, l’organino suona di lontano e i
garofani olezzano; meglio a vespero, quando il predicatore spiega le gioie del
paradiso. Se per un solo istante è stata turbata la pace della vostra
ignoranza, se un solo lampo vi ha illuminato un paesaggio sconfinato, se avete
sofferto un sol minuto, se v’è entrato nell’anima un desiderio ignoto, se avete
intuito quanto non sarà mai vostro, se vi è nato un rimpianto, allora quel
vostro palco che sembrava una festa, è stato invece una crudeltà.,
Gabriele D’Annunzio, Il piacere, 1890
incipit
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San
Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi
primaverile, nel cel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche
di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di
vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio
confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva
fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato. Le stanze andavansi empiendo a
poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e
larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da
una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a
similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine del tondo di Sandro
Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in
eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi
spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno
rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel
caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in
maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci,
antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in
carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata
dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a
motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine
di pizzo si disegnava sul tappeto. L'orologio della Trinità de' Monti suonò le
tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era
disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi
nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò
intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo
pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di
distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto,
prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo
di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la
lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante
piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel
caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora di
intimità.. […]
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