23/01/09

Beppe Sebaste su Edgar Allan Poe

Conoscenza e delirio, cioè letteratura. Per il bicentenario di Edgar Allan Poe

“Si potrà chiedere in che senso il delirio sia conoscenza: semplicemente, presupponendo che la realtà non sia reale, che anzi il concetto stesso di ‘realtà’ altro non sia che una bassa invenzione pedagogica, una minatoria falsificazione moralistica”. Sembra una frase di Philip K. Dick o un suo commentatore, ma è il nostro Giorgio Manganelli a proposito dei racconti di Edgar Allan Poe, “insondabili incunaboli della letteratura moderna”, capolavori di intelligenza e lucidità visionaria. Difficile dire di cosa la letteratura contemporanea (e non solo la letteratura) non sia debitrice verso Allan Poe. L’autore dei racconti del Grottesco e dell’Arabesco (così li titolò nel 1839) ha anticipato e scandagliato ogni futura direzione narrativa.
Nato a Boston nel 1809, morto quarant’anni dopo in un ospedale di Baltimora dopo un’esistenza dissipatissima e dark, la lungimiranza di Edgar Allan Poe viene dall’aver combinato insieme nella sua opera le opposte tendenze della sua epoca (che per molti versi è ancora la nostra): quel nuovo romanticismo che nei manuali viene chiamato “Decadentismo” (non a caso la sua opera fu tradotta da Baudelaire) e l’euforia razionalista e progressista di ciò che ancora i manuali chiamano “Positivismo”, ossia il metodo scientifico e il “mondo della tecnica”. Mezzo secolo prima di Freud l’americano Poe descrive l’ascesa e il trionfo della borghesia nelle grandi città, il suo apparente pieno controllo del mondo, e nello stesso tempo la sua impotenza di fronte all’emergere di angosce e paure incontrollabili. Inventò il genere forse più razionalista e ottimista, il romanzo poliziesco (suo è il detective Dupin, eroe de I delitti della rue Morgue e La lettera rubata, imitato da ogni successivo giallo a enigma; e suo è il primo “mistero della porta chiusa”), sapendo però che l’uso della ragione, il pensiero, altro non è che paura trasformata, paura che si è data un’attrezzatura metodica. E che può anche fallire.
Quando ero studente, e il mio professore più famoso era Umberto Eco, mi capitò di confrontarmi con lui in una dibattito al Festival del Giallo di Cattolica. Lui leggeva i gialli, sulla scorta del pragmatismo filosofico di Charles S. Peirce, che impresse nuovi sviluppi alla semiotica (in particolare allo studio dell’abduzione) come un modello di ragionevolezza induttiva. Gli esempi venivano in genere tratti da Sherlock Holmes, calco dell’investigatore Dupin inventato da Poe. Io leggevo gli stessi gialli come modello di ebbrezza, paragonando quel lasciarsi trasportare di cui è immagine la nuvola spinta dal vento, cioè il piacere di lasciarsi trasportare dal tono narrativo. Il piacere della letteratura, di cui fa parte “la sospensione dell’incredulità”, non cessa coi romanzi polizieschi, viene anzi rilanciato da essi, come imparai leggendo le lettere di Edgar Allan Poe al suo editore. La logica che affascina i lettori e li spinge a credere a una superiore intelligenza deduttiva dell’investigatore, scriveva Poe, non è che un effetto retorico, l’effetto di un “tono metodico”: “dov’è l’ingegnosità nel dipanare una matassa che voi stesso avete arruffato per il preciso scopo di dipanarla? Il lettore è indotto a confondere l’ingegnosità dell’immaginario Dupin con quella dello scrittore della novella” (lettera a Philip P. Cooke, 9 agosto 1846).
Edgar Allan Poe, che scrisse anche poesie, saggi di estetica e poetica, e una Filosofia della composizione, inventò sia i "Tales of Ratiocination "- “racconti di raziocinio”, tra cui appunto i primi gialli in assoluto – sia i “racconti di allucinazione”, dove reinventava il genere gotico e horror, come in Berenice o La caduta della casa Usher. Scrisse un romanzo “incompiuto” – Le avventure di Gordon Pym, che spacciò così efficacemente come storia vera da non avere successo proprio per questo. Scrisse un racconto come L’uomo della folla, primo affresco di quella solitudine urbana come estraneità e disincanto che popolerà la sociologia e il cinema. Ma sopratutto, tratto comune a ogni suo racconto, Poe inventò un nuovo tipo di eroe moderno, un eroe intellettuale che potremmo chiamare meglio ”percettivo”, un personaggio la cui caratteristica è una sviluppata facoltà di “attenzione”, e una vocazione a giocarsi il destino interpretando i dati delle sue percezioni – che si tratti degli arabeschi di un tappeto, di una macchia bianca nel gatto nero o di gocce d’acqua che scivolano su vetri. Le storie differiscono solo dall’esito delle loro interpretazioni: chi interpreta bene può trovare un tesoro (Lo scarabeo d’oro), chi interpreta male può perdere la vita (Il gatto nero) o arrivare all’horror di una follia assassina (Berenice). Come è stato osservato, tutti questi personaggi sono inizialmente liberi, liberi di pensare ciò che vogliono, ma non liberi di non pensare. Il loro destino è la logica, o meglio, l’interpretazione delle loro visioni. Già questo basterebbe a fare di Edgar Allan Poe il narratore antesignano della nostra alienazione culturale o delle nostre nevrosi, fino all’indiscernibilità di delirio e conoscenza cui accennava Manganelli, e da cui abbiamo preso le mosse.
Resta che i racconti di Edgar Allan Poe siano i più citati, usati e portati a esempio dalla filosofia, e non solo per la loro messa in scena del processo di pervenire alla verità (o all’errore). E’ forse grazie a Poe, al suo suggerimento di uno sconfinamento tra delirio e conoscenza, deriva e salvezza, che Jorge Luis Borges, nella sua catalogazione dei generi della letteratura fantastica, aggiunse la speculazione metafisica.
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Ma vedi anche:


Citati su Edgar Allan Poe (da Repubblica)

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