Primo commento di uno spettatore:
Si tratta di un film molto particolare, quasi sperimentale: ritmo molto lento, espressione scarnissima, mancanza di corrispondenza fra atto recitativo e evento rappresentato, difficoltà di inquadrare nei suoi nessi logici le immagini, i piani temporali e spaziali.
E' un film che va percepito quindi soprattutto con l'occhio e l'emozione che viene dalla vista di panorami amplissimi su paesaggi aridi, immensi, dalla luce piena e dai colori vivi è indimenticabile. Bisogna vedere, non si può descrivere.
Pasolini ci vuole quindi fare vivere l'esperienza della natura nella sua potenza primigenia.
Anche il mondo umano è descritto nella sua forma essenziale e primitiva, quella vera, basilare, genuina (così ce la descrive il film). Il tutto è rappresentato con una vista nuda, sincera, essenziale. Non c'è alcuna sovrapposizione di gusto, colore, adattamento visivo-sentimentale moderno o commerciale. Si tratta quindi di un'esperimento artistico di Pasolini che ha voluto girare un film al di fuori di tutti i canoni visivi borghesi o "normali". La mdp ad esempio è usata in maniera insolita, per lo più a spalla o addirittura controsole. In un'inquadratura si riproduce addirittura la vista soggettiva di un neonato verso gli alberi e il cielo.
Quello che preme a Pasolini, più che la storia, è l'ambientazione scenica, il parallelo con il mondo primitivo attuale (si mescola l'arabo con l'africano), con la civiltà non-occidentale. Questa è l'unica che può ancora esprimere il senso del mito, dell'epica, e della poesia. Sono doti che il nostro mondo ha ormai completamente perso (questo il significato delle scene finali ambientate nella piccolo-borghese Bologna e nell'industriale Milano).
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Dalla tesi di R. Gerardo MY sulla musica nei film di pasolini, in pasolini.net: http://www.pasolini.net/1tesimy_indice.htm)
L’elemento autobiografico non è, però, l’unica chiave di lettura alla riscrittura pasoliniana del mito di Edipo. Nell’Edipo re sofocleo, infatti, si consuma la "tragedia della conoscenza", dell’"obbligo di conoscere". Ad ispirare Pasolini è il fatto che la vittima di tale tragedia è un "innocente". Nell’Edipo re di Sofocle, commenta il regista,
"la persona cui tocca misurarsi con tutti questi problemi [è] la più impreparata a sostenere una simile prova, una persona del tutto innocente. […] Edipo […] è uno che non vuole guardare dentro le cose, come tutti gli ingenui, gli innocenti che vivono la loro vita quali prede della vita e delle proprie emozioni. Questa è la cosa di Sofocle che mi ha ispirato di più: il contrasto tra l’ignoranza totale e l’obbligo di conoscere .
L’essere "vittima innocente" è
il tratto che accomuna Edipo ai personaggi dei precedenti film di
ambientazione sottoproletaria. Edipo come Accattone (nell’omonimo film),
Ettore (in Mamma Roma) e Stracci (ne La ricotta)
sono tutti esseri che attraversano la vita inconsapevolmente,
consumando la loro esistenza senza averne coscienza, trasportati da un
destino tragico che incombe su di essi. E non è un caso, infatti, che
per impersonare Edipo, Pasolini scelga Franco Citti, l’attore che
incarnava l’immagine dei "ragazzi di vita", del mondo sottoproletario.
La
volontà dell’autore di non fare di Edipo un intellettuale, un campione
di razionalità, ma di esaltarne il lato più fisico ed istintivo, si
manifesta ad esempio, nel film, durante l’episodio dell’incontro tra
Edipo e la Sfinge, attraverso l’eliminazione del motivo della
risoluzione dell’enigma da parte di Edipo.
"I costumi – commenta Pasolini – sono inventati quasi arbitrariamente. Ho consultato opere sull’arte azteca, sui Sumeri; altri provengono direttamente dall’Africa nera, perché la preistoria è stata praticamente la stessa ovunque. E avrei voluto insistere su questa linea, rendere i costumi ancora più arbitrari e preistorici, ma non ho avuto tempo per approfondire" - Durante la lavorazione di Edipo re, in un’intervista con Alberto Arbasino con queste parole Pasolini descrive i colori dei paesaggi del Marocco:
"certi rosa e verdi stupendi; berberi quasi bianchi, però "alieni", remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i Greci: non contemporaneo, fantastico ..."
"I costumi – commenta Pasolini – sono inventati quasi arbitrariamente. Ho consultato opere sull’arte azteca, sui Sumeri; altri provengono direttamente dall’Africa nera, perché la preistoria è stata praticamente la stessa ovunque. E avrei voluto insistere su questa linea, rendere i costumi ancora più arbitrari e preistorici, ma non ho avuto tempo per approfondire" - Durante la lavorazione di Edipo re, in un’intervista con Alberto Arbasino con queste parole Pasolini descrive i colori dei paesaggi del Marocco:
"certi rosa e verdi stupendi; berberi quasi bianchi, però "alieni", remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i Greci: non contemporaneo, fantastico ..."
La struttura su cui Pasolini costruisce l’Edipo re è,
nella fattispecie, il cerchio: grazie ad essa egli mette in scena
l’idea ciclica di un eterno ritorno di nascita e morte ("La vita finisce
dove comincia": queste le parole pronunciate da Edipo alla fine del
film) derivatagli dal suo interesse per gli studi antropologici. La
struttura ciclica, perciò, gli consente di andare oltre la storia e di
allargare i confini della sua esistenza a quelli atemporali del mito .
È lo stesso Pasolini, in un’intervista concessa ai redattori dei "Cahiers du Cinéma" nel 1967, a richiamare l’attenzione su questo scarto stilistico rispetto i suoi precedenti lavori di regista:
Considero Edipo come il più cinematografico dei miei film. Per tutti gli altri, e soprattutto perAccattone, Bernardo Bertolucci ha ragione quando dice che non si può parlare di cinema (non avevo una formazione da cinefilo, non amavo certi piani che pure sono tipici del cinema, una certa forma di narrazione comunque valida per tutto il cinema; manifestavo una forma di rifiuto, cosciente o inconscio, non so, a fare del cinema; preferivo dipingere, o non so bene cosa). Qui per la prima volta ho accettato le regole, certe regole intrinseche a questa forma d’espressione. Per esempio, in tutti i film c’è un personaggio che esce di campo, lo lascia vuoto e un altro che vi entra: io non l’avevo mai fatto. Pensavo si trattasse di una regola banale. Forse perché oggi amo il cinema più di un tempo, in Edipo ho utilizzato anche questa figura.
Durante l’intervista del 1969 con Halliday, infatti, così Pasolini giustifica la scelta delle musiche etniche slave:
Inizialmente avevo pensato di girare Edipo in Romania, per cui feci un viaggio di ricognizione in cerca di luoghi adatti. Ma non andò bene. La Romania è un paese moderno, le campagne si trovano in piena fase di industrializzazione; stanno distruggendo tutti i vecchi villaggi con le case di legno, ormai non resta più niente. Perciò abbandonai l’idea di girare il film lì, ma in compenso trovai certi motivi popolari che mi piacquero moltissimo perchè erano estremamente ambigui: qualcosa a mezza via tra i canti slavi, quelli greci e quelli arabi, indefinibili: è improbabile che uno che non possieda una conoscenza specifica riesca a localizzarne l’origine; sono un po’ fuori della storia. Poichè intendevo fare dell’Edipo un mito, avevo bisogno di musica che fosse astorica, atemporale.
IL FLAUTO
La sceneggiatura –
che contiene indicazioni assai dettagliate sulle musiche e sulla loro
valenza simbolica – pone grande rilievo al suono dello strumento. Il
cieco suonatore di flauto è, infatti, il poeta che canta "ciò che è al
di là del destino":
Ed ecco che, in quei luoghi, assurdo, comincia a errare per l’aria il suono di un flauto.Edipo guarda negli occhi il ragazzo che lo guarda, e sa, ma tace. Camminano ancora, ora come guidati da quel suono […].Non c’è che il sole.Ma, accucciato tra due cespugli selvaggi ecco un uomo. Un vecchio uomo, grasso, pesante, segnato dalla vecchiezza su un viso restato infante. Ma le pupille non seguono il suono doloroso, funebre e severo del flauto.[…]I due sono uno di fronte all’altro: Edipo coi suoi occhi di ragazzo, Tiresia coi suoi occhi di cieco. Tutto quello che hanno da dirsi, non è che un lungo silenzio. Poi Tiresia ricomincia a suonare. Le note del flauto risuonano alte e pure: il loro dolore è il dolore del mondo. Alle prime note del flauto che ricomincia a suonare, gli occhi di Edipo si riempiono di lacrime.
Si
manifesta così da subito quell’associazione tra il suonare il flauto e
l’esercizio dell’arte della profezia (e della poesia), la cui portata
simbolica si rivelerà pienamente nel finale del film. In esso, proprio
tramite il flauto, avviene il passaggio di consegne tra Tiresia ed
Edipo. Lo stesso Pasolini – il quale, forse, mai come in questo film è
intervenuto in diverse occasioni a chiarificare i vari momenti
dell'opera, sciogliendo i dubbi e le incertezze dell’interlocutore di
turno – durante l’intervista del 1969 con Duflot si sofferma sull’epilogo del film:
"Questo è il momento della sublimazione, come la chiama Freud. Variante del mito è che Edipo finisce per essere allo stesso punto di Tiresia: egli si è sublimato come fanno il poeta, il profeta, l’uomo di eccezione, in qualche modo. Diventando cieco, attraverso una certa forma di purificazione, raggiunge la dimensione dell’eroismo, o della poesia".
E ancora, sempre sul finale dell’Edipo re:
"L’Epilogo è quello che Freud chiama "sublimazione". Una volta che si è accecato, Edipo rientra nella società sublimando tutte le sue colpe. Una delle forme di sublimazione è la poesia. Lui suona il flauto, il che significa, per metafora che è un poeta" .
Difatti,
nell’Epilogo contemporaneo del film – in cui si vede un Edipo cieco e
invecchiato che, accompagnato da uno spensierato giovanotto
(Angelo/Ninetto Davoli), si aggira suonando il flauto per diverse
contrade dell’Italia del Nord – Pasolini si serve del suono di tale
strumento per tracciare un excursus della propria storia di poeta. Come avremo modo di vedere meglio durante l’analisi dell’Epilogo contemporaneo l’autore,
attraverso una soluzione filmica tra le più belle di tutto il suo
cinema, per mezzo dei motivi suonati da Edipo al flauto in determinati
luoghi (il centro storico di Bologna, una fabbrica alla periferia di
Milano e infine il prato del tempo dell’infanzia, evocazione dell’amato
Friuli), sintetizza i suoi trascorsi di artista e di intellettuale.
"Ho girato […] il finale, o meglio il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho iniziato a scrivere poesie; è la città in cui mi sono trovato naturalmente integrato nella società borghese; allora credevo di essere un poeta di questo mondo, come se non fossero mai esistite le divisioni di classe. Credevo nell’assoluto del mondo borghese. Con il disincanto, poi, Edipo lascia dietro di sé il mondo della borghesia e s’inoltra sempre di più nel mondo popolare, dei lavoratori. Se ne va a cantare, non più per la borghesia, ma per la classe degli sfruttati. Di qui questa lunga marcia verso le fabbriche. Dove, probabilmente, l’aspetta un altro disincanto... "
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Il suono del flauto e l’invocazione alla luce,
come consolazione estrema di fronte all’approssimarsi della morte,
richiamano le ultime parole di Edipo che, dopo aver attraversato i
silenzi di "una strada che non ha fine, una strada che porta verso un
tutto che ha la forma del nulla", prende congedo dal mondo:
O luce che non rivedrò più, che eri prima in qualche modo mia,
mi illumini ora per l’ultima volta.
Sono giunto. La vita finisce dove comincia
P.P. Pasolini, Edipo re (film), 1967
La luce accecante (del sole e della coscienza) è il senhal dell’Edipo
interpretato da Citti, una vera ossessione visiva accentuata dalla
persistente eco del flauto, che si propaga per tutta la durata del film a
segnare l’inesorabile destino di morte del personaggio. Dentro
l’assolata vertigine del mito l’immagine del mondo e la voce del poeta
sono gli indizi del precipitare lento della storia nella spirale del
tempo.
C’era qualcosa di meraviglioso in quel canto reale, comune segreto, canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava da riconoscere… canto dell’abisso: che inteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro (M. Blanchot, Il libro a venire, 1969, p. 13).
"È inutile, l’abisso in cui mi spingi è dentro di te": l’Edipo re di
Pasolini precipita dentro il baratro della conoscenza perché "quello
che non si vuole sapere non esiste, ma quello che si vuole sapere
esiste". La riscrittura pasoliniana dell’Edipo sofocleo, al di là
dell’evidente intersezione con i materiali autobiografici dell’autore, è
un duplice percorso di attualizzazione che si divarica tra
sceneggiatura e film, nel rispetto della superiore unità tragica del
teatro che si riverbera nella filigrana della voce, nel continuum del
suono "doloroso, funebre e severo del flauto". Alla circolarità
cronotopica della ‘piazza’, spazio aperto, prepotentemente teatrale,
Pasolini sostituisce la linearità della ‘strada’, in cui si parla una
parola selvaggia, blasfema, imprudente. La logica consequenzialità del
destino oracolare, che in Sofocle si fa racconto in-scenandosi nello
spazio-tempo assoluto e misurabile della piazza, si dissolve lungo una
strada polverosa e accecante, "la via dell’esilio", che conduce Edipo
verso "l’immenso buco dove comincia la vita". Alla forte concentrazione
di eventi, il ‘doppio’ testo pasoliniano sostituisce la nudità e la
rarefazione del cronotopo, il silenzio invaso dalla luce e dal tempo
della ri-nascita. A segnare il confine è insieme un canto e un suono, la
voce addolorata della tragedia che si fa poesia, che si incarna nel
destino di un nuovo aedo, inascoltato profeta del passato e
dell’avvenire.
I due sono uno di fronte all’altro: Edipo coi suoi occhi di ragazzo, Tiresia coi suoi occhi di cieco. Tutto quello che hanno da dirsi non è che un lungo silenzio. Poi Tiresia ricomincia a suonare. Le note del flauto risuonano alte e pure: il loro dolore è il dolore del mondo. […]
VOCE INTERIORE DI EDIPO - Canta, ma non canta di sé. Qualcuno gli ha dato l’incarico di cantare, è cieco, è cieco, qualcuno gli ha dato l’incarico di vedere, in questi giorni, in queste notti della sua città… È per gli altri che canta, è degli altri che canta, è per me che canta, è di me che canta. Sa di me, e si rivolge a me! Poeta! Tu, poeta, col tuo incarico di cogliere il dolore degli altri e di esprimerlo come se fosse lo stesso dolore, a esprimersi… Il destino continua oltre ciò che il destino riserva. Io ascolto ciò che è al di là del mio destino.
P.P. Pasolini, Edipo re (sceneggiatura), 2001, pp. 1006-1007
La
scrittura provvisoria, seppur straordinariamente compiuta, della
sceneggiatura pasoliniana recupera la funzione sovrastrutturale della
musica e del canto codificata dalla spettacolarità tragica; il cammino
erratico di Edipo è scandito dal risuonare di voci e di suoni selvaggi e
arcaici, che riempiono il vuoto metaforico della sua conoscenza, fino
all’emergere del sublime e doloroso lamento del flauto, che sembra
ricomporre gli eventi e orientare il destino dell’inconsapevole ‘eroe’
verso il nulla della storia e del tempo.
Nel
testo filmico, invece, il dialogo fra Edipo e il profeta è costruito
attraverso la pregnante contrapposizione attoriale fra Julian Beck e
Franco Citti: la possente dizione di Beck, la sua fisicità asciutta ma
vibrante, si alterna alla rude fisionomia di Citti, agli scatti nervosi
di una regalità vacillante, sferzata dalla nuda verità del logos.
Nel
contrappuntare la sequenza, però, Pasolini non rinuncia alla dimensione
evocativa della musica e affida al ragazzo-nunzio (interpretato da
Ninetto Davoli) il compito di suonare il flauto, liberando così le note
di uno straziante canto di dolore. Poco più avanti, quando ormai tutto è
compiuto, assistiamo a una fatale passaggio di consegne, che avvia
ormai la parabola tragica di Edipo verso un finale inconsolabile.
Ed ecco venire verso di lui il ragazzo-nunzio, con la sua umile faccia pietosa: tiene in mano qualcosa, però. È un flauto. Un flauto come quello di Tiresia. Il flauto di chi è cieco. Il flauto che fa tornare le cose nelle regole, che codifica lo scandalo.
Il ragazzo abituato agli umili servizi, non ha paura di avvicinare quell’uomo ridotto così male, con quelle piaghe ancora fresche e sanguinanti. Gli si avvicina, e gli allunga il flauto che Edipo non vede, ignora.
Allora il ragazzo gli prende una mano, e gliela mette sul flauto: la mano di Edipo cerca, riconosce. Stringe il flauto e, sorretto dal ragazzo, si incammina con lui. […]
Ed ecco che ora Edipo suona – mendicante cieco, profeta – ancora faticosamente e puerilmente, una melodia, la melodia della sua infanzia, la melodia del misterioso canto d’amore di Tiresia, la melodia che è prima e dopo il destino. I due si perdono lontano, in fondo alla strada polverosa (P.P. Pasolini, Edipo re (sceneggiatura), 2001, pp. 1047-1048).
È
qui che avviene lo slittamento dall’immutabile ed eterna grammatica del
mito all’urgenza magmatica e sconfessata della storia, nel ritornare
della melodia dell’infanzia, misteriosa ferita mai rimarginata, nella
ricreazione della cornice che trasforma il tempo mitico di Sofocle in un
sogno iniziatico al dolore e alla testimonianza della poesia, che ha il
senso sconvolgente di una ripetizione, di un ritorno.
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