Anna Maria Ortese, “Bologna, forse
una terra promessa”. In La lente scura,
Adelphi 2004.
Apparso su
“Milano-Sera”, 15-16 settembre 1949
Notte
chiara sulla via Emilia: non la più piccola nuvola sul cielo di un
azzurro lavagna, non un rumore di vento per la campagna oscura,
tranquilla, una di quelle notti che precedono il Natale o i giorni di
sagra, nei ricordi misteriosi dell'infanzia. Quando il sole si è
aperto improvvisamente all'orizzonte, come un crisantemo di fiamma, e
poi, come una bandiera di un rosso vivo, quasi correndo sul filo di
un'asta invisibile, è salito rapidamente, allegramente nel cielo,
Bologna era in vista con le sue case rosse, i portici, le piazze, i
campanili, le sue strade silenziose, i giardini; ci veniva incontro
imbiondita dalla mattina, sotto il cielo di un cobalto fresco,
purissimo.
Le
prime biciclette andavano già, scintillando, lungo il filo del
marciapiedi, con un'allegrezza, una lievità che richiamavano il
volo; riaperte le mostre dei negozi, levate le saracinesche dei
caffè, dei bar, formatisi i primi gruppi intorno alle edicole dei
giornali, ci siamo resi conto di un fermento, una animazione, una
gioia intensa, tutti i segni avvisatori di una vacanza, una solennità
popolare, di cui non sapevamo niente e che ci appariva proprio per
questo più eccitante, meravigliosa.
Non
volevamo credere che la domenica, o una manifestazione del Partito
comunista, di cui ci avevano parlato, avessero qualche parte in
questa felicità, nella commozione che vedevamo nascere, riflettersi,
comporsi e via via allargarsi e splendere sulle facce della gente. Ci
dicevamo piuttosto che queste donne di Bologna, che forse si
avviavano, così vestite, alla prima Messa (un santo ricorreva,
certamente, ma non sapevamo quale), erano tra le più vivide e le più
calde, espressione quasi allarmante di giovinezza, di quante ne
avessimo viste nella varie regioni d'Italia; che quegli uomini forti
e veri, dagli occhi scintillanti d'intelligenza e le voci cordiali,
avevano impressa nel viso, nei modi, una espressione indicibile di
dignità, di libertà, di felice speranza, come gente abituata a
svegliarsi nella casa sua, in mezzo ai beni suoi, fatti da essa e che
nessuno le toglierà.
Andavamo
per le strade sussultando per una sorpresa e un turbamento continui:
mai, sotto un cielo così turchino, in un mattino di domenica,
avevamo visto infittire e correre e divenire come un fiume arricchito
da mille torrenti una folla umana che facesse pensare così
sicuramente alla tensione di una freccia sulla corda dura dell'arco,
pronta a scattare, tremante; che svegliasse così rabbrividiti
pensieri, sospetti di una gioia alta, generale, dovuta a tutti. Era,
per caso, la primavera? Nasceva un giorno comandato? In quali piazze
si allestiva una fiera, o su quali colline salivano, salmodiando,
sacerdoti e vessilli sacri e croci tutte dorate, e fanciulle velate,
incoronate di fiori bianchissimi?
Ma
non sentivamo, intanto, campane di sorte, né le onde tranquille
dell'aria ci portavano litanie.
Era,
soltanto, la festa dell'Unità.
Davanti
ai giardini Margherita abbiamo
scorto le prime bandiere: erano rosse, morbide, sfavillanti: erano
come tante grandi fiamme accese qua e là, sotto il cielo sereno,
fiamme tutelari, magiche. Dovunque, questo colore vivificante
richiama da noi immagini di sospetto, di vigilanza; e silenzi come
fumo, e gridi come incendi. Ma qui, ai Giardini Margherita,
come in tutta Bologna (lo
scoprimmo più tardi) sicurezza e sorriso, intorno alle bandiere
scarlatte, un'aria d'incanto come in una festa di sogno; non la
possibilità di un dubbio sulla pienezza e la spontaneità di questo
sogno. Obbedendo a una nostra mortificata diffidenza noi ci dicemmo
sul principio che forse era un quadro,
immaginammo la prova generale di uno spettacolo surreale, ordinato
dalle autorità, che contemplasse ironicamente certe pur affascinanti
possibilità di un'utopia. Questi uomini giocano, ci dicevamo, e col
permesso del Governo, il suo conseguimento; ma improvvisamente
qualcosa accadrà; queste bandiere appassiranno, questi uomini
esaltati riprenderanno il volto mortificato e solitario di sempre;
riudremo le campane, nell'aria, chiamare urgentemente alla
meditazione rassegnata; le strade si svuoteranno, questo tumulto si
spegnerà in un silenzio pieno di respiri affannati. Altre cose
pensavamo, non riuscendo a credere ai nostri occhi.
Bologna
ci appariva a un tratto la terra promessa. L'uomo era con l'uomo e
per l'uomo. Una mano stringeva un'altra. Uno sguardo s'appoggiava a
un altro. Il fratello lasciato a casa o scomparso nel vento della
guerra, era, appariva anche quel ciclista dal volto scarno e la
semplice tuta, che levava sulla folla, nell'aria azzurra, due occhi
neri, grandi, dallo sguardo esitante di chi è stato a lungo malato e
ora respira la fresca aria.
“Compagno,
compagna” sentivamo qua e là. Dov'erano la goffaggine, la banalità
che avevano a lungo avvilito questa parola? Era come quando un velo
cade dagli occhi, e le cose ci appaiono nelle loro forme ingenue,
freschissime.
La
sfilata, alle dieci del mattino, dei radunisti convenuti da tutte le
parti d'Italia, con le loro grandi bandiere, e durata oltre un'ora,
sembrava, ma non è stato, il momento più armonioso della giornata.
Solo chi ha il senso dello spazio e della luce, il culto dei colori e
sente il mistero degli alberi, ha capito che il momento più alto
della giornata di ieri, a Bologna, è stato vissuto ai giardini
Margherita. Più di
quattrocentomila persone vi si sono avvicendate. Gli stands, sotto la
luce ardente, sembrano aiuole, offrivano di tutto, leggermente,
gaiamente, Gruppi bellissimi di uomini in blu e rosso (fazzoletto
rosso, berretto rosso, allegro, bruciante) camminavano con l'aria
esitante e felice dei marinai scesi a terra dopo giorni di
navigazione, sfogliavano un libro, stappavano una bottiglia,
guardavano le ragazze, gli alberi, la luci, parlavano forte,
ridevano.
Passavano,
nella folla, vecchine piccolissime, vecchine che siamo abituati a
vedere nelle chiese, e si trascinavano dietro nipotini frementi,
ragazzetti smaniosi, accesi in viso, perduti dietro un pallone
colorato, leggero. Famiglie intere occupavano i viali, comitive di
parenti, dov'era facile riconoscere i fidanzati, gli amici, la zia
che non esce mai di casa e il nonno dagli occhi accesi e lo sguardo
tenero.
La
radio gettava intorno ritmi di ballabili, parole di sciocche e pur
familiari canzoni, che a momenti sopraffacevano e sembravano sperdere
la musica umana, il suono incantato dei passi, delle esclamazioni, ei
richiami, delle risate. Chi sedeva a un tavolino sotto un albero
consumando una birra; chi si sdraiava in un prato a sorvegliare i
bambini; chi cercava animosamente un tavolo dove sedersi con la
famiglia. Da mezzogiorno alle due, tavoli di legno piantati in mezzo
all'erba, nella luce, verde-oro el sole filtrato dagli alberi, hanno
visto corone di teste giovani e belle, quasi tutte brune, sorridere
smemorate, eccitate, ai piatti saporiti, ai bicchieri di birra, ai
grossi grappoli d'uva. Ci si parlava da un tavolo all'altro, i piedi
sull'erba, la fronte nell'ombra della foglie, la bocca nella luce del
sole.
Tutti
i colori erano presenti: ma il blu e il rosso delle tute dei berretti
e dei fazzoletti, erano i più belli sul verde dei giardini, il
biondo dei rami, il celeste dell'aria. Il vocio si calmava e poi
rinasceva, come portato dal vento. SI aveva la sensazione di una
felicità così vicina alle cose perfette, da raggiungere il
significato di una visione, il mistero di un simbolo. Non sembrava
vero, e per questo turbava, che tanti uomini, una città intera,
festeggiassero così mitemente, così umanamente se stessi, la loro
fatica, libertà, bontà.
Ma
fuori dei Giardini, Bologna tumultuava d'altra folla (da dove e
quando [era]
venuta tanta gente? Non era un miracolo?) che non si era quetata un
momento, che si preparava al corteo del pomeriggio, alla grande
sfilata dei carri e delle bandiere, dei simboli dell'unità popolare.
IL sole bruciava fin sotto i portici, quando tutto questo è
cominciato, accendeva le tuniche rosse di graziose ragazze, le tute
azzurre dei giovani, la selva rossa delle bandiere e quella strana e
multicolore dei carri pronti per la sfilata. Non ricordiamo quando è
cominciata, come, da dove. Abbiamo avuto l'impressione di essere
sballottati per ore e ore da grandi onde piene di suoni di echi di
mormorii di gridi proveniente da una lontananza infinita, remota.
Eravamo e non eravamo a Bologna. CI sembrava che tutte le città
fossero presenti, tutte le nazioni, tutto il confuso sospiro
d'orgoglio e speranza delle folle della terra. Non sembrava una
manifestazione né una processione, ma una danza: che ora aveva tutti
gli impeti della gioia, ora tutti i turbamenti delle tristi memorie,
ora tutte le esaltazioni del sogno. Intorno al corteo, che portava,
di volta in volta, il ritratto di Maria Margotti, o i simboli delle
officine, del denaro e delle armi incombenti sull'uomo, o le immagini
di tutte le diverse civiltà del mondo, dalla cinese alla russa alla
americana, stazionava una folla enorme, attenta, di cui pareva
sentire il respiro.
Uomini
e donne di tutte le età, professioni, condizioni; borghesi,
studenti, operai: come in uno specchio gigantesco cercando se stessi.
È passato un gruppo di ragazze vestite di corte tuniche azzurre,
entro una lunga rete brillante di migliaia di fiori: le loro teste
erano brune come la notte, i profili puri, pensierosi, gli occhi
guardavano avanti, in un punto comune, certo molto alto, con una
tranquillità intensa. Ci è parso, irragionevolmente, la cosa più
bella.
Alle
sei di sera, tra giardino e giardini, sulla folla intensissima che vi
si era riversata, è suonata la voce dell'onorevole L. Ha parlato,
non molto, e la gente ascoltava tra l'erba commentando familiarmente.
Quando
si è taciuta, oramai era buio, i Giardini si erano trasformati in
una specie di parco di divertimento. Non c'era più posto per un
pensiero, una voce severa. Fuochi d'artificio, tutti gli stands
illuminati, fiotti di gente, come colate di lavi, che si dirigevano
da tutte le parti.
Fino
a tarda notte la città è rimasta illuminata, piena di quei visi
forti, di quelle voci allegre, di quegli sguardi buoni.
Noi
l'abbiamo lasciata sull'alba, svogliatamente.
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