CALVINO SU "FORSE UN MATTINO ANDANDO"


ITALO CALVINO SULLA POESIA DI MONTALE
Forse un mattino è un «osso di seppia» che si distacca dagli altri non tanto perché è una poesia «narrativa», (...) ma perché è priva di oggetti, di emblemi naturali, priva di un paesaggio determinato, è una poesia d'immaginazione e di pensiero astratti, come raramente in Montale. 
Un'aria di vetro

A ben vedere, la molla che scatena il «miracolo» è l'elemento naturale, cioè atmosferico, l'asciutta cristallina trasparenza dell'aria invernale che rende le cose tanto nitide da creare un effetto d'irrealtà, quasi che l'alone di foschia che abitualmente sfuma il paesaggio s'identifichi con lo spessore e peso dell'esistere. No, non ci siamo ancora: è la concretezza di quest'aria invisibile, che appunto pare vetro, con una sua solidità autosufficiente, che finisce per imporsi sul mondo e farlo sparire. L'aria-vetro è il vero elemento di questa poesia, e la città mentale in cui la situo è una città di vetro, che si fa diafana fino a che scompare. E' la determinatezza del medio che sbocca nel senso del nulla (mentre in Leopardi è l'indeterminatezza che raggiunge lo stesso effetto). O per esser più precisi, c'è un senso di sospensione, dal «Forse un mattino» inizialI, che non è indeterminatezza ma attento equilibrio, «andando in un'aria di vetro», quasi camminando nell'aria, in aria, nel fragile vetro dell'aria, nella luce fredda del mattino, fino a che non ci s'accorge d'essere sospesi nel vuoto. 


Il senso di sospensione e insieme di concretezza continua nel secondo verso. 

Tra le ragioni per cui una poesia s'impone alla memoria (prima chiedendo d'essere mandata a mente, poi facendosi ricordare) le peculiarità metriche hanno una parte decisiva. In Montale m'ha sempre attratto l'uso della rima: le parole piane che rimano con le sdrucciole, le rime imperfette, le rime in posizioni insolite. La sorpresa della rima non é solo fonetica: Montale è uno dei rari poeti che conoscono il segreto d'usare la rima per abbassare il tono, non per alzarlo, con effetti inconfondibili sul significato. Qui, il miracolo che chiude il secondo verso viene ridimensionato dalla rima con ubriaco due versi dopo, e tutta la quartina resta come in bilico, con una vibrazione sgomenta. 


Il «miracolo» è il tema montaliano primo e mai smentito della «maglia rotta nella rete» , «l'anello che non tiene» , ma qui è una delle poche volte in cui la verità altra che il poeta presenta al di là della compatta muraglia del mondo empirico si rivela in una esperienza definibile. Potremmo dire che si tratta né più né meno che della irrealtà del mondo, se questa definizione non rischiasse di sfumare nel generico qualcosa che ci viene riferito in termini precisi. L'irrealtà del mondo è il fondamento di religioni filosofie letterature soprattutto orientali, ma questa poesia si muove in un altro orizzonte gnoseologico di nitidezza e trasparenza, come «in un'aria di vetro» mentale. 


Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione ha pagine molto belle sui casi in cui l'esperienza soggettiva dello spazio si separa dall'esperienza del mondo oggettivo (nel buio della notte, nel sogno, sotto l'influsso della droga, nella schizofrenia, etc.). Questa poesia potrebbe figurare nell'esemplificazione di Merleau-Ponty: lo spazio si distingue dal mondo e s'impone in quanto tale, vuoto e senza limiti. La scoperta è salutata dal poeta con favore, come «miracolo», come acquisizione di verità contrapposta all' «inganno consueto», ma anche sofferta come vertigine spaventosa: «con un terrore di ubriaco». Neanche «l'aria di vetro» sostiene più i passi dell'uomo; l'avvio librato dell'«andando», dopo il rapido volteggio, si risolve in un barcollare senza più punti di riferimento.

Tra gli uomini che non si voltano

Il «di gitto» che chiude il primo verso della seconda quartina circoscrive l'esperienza del nulla nei termini temporali d'un istante. Riprende il movimento dell'andare all'interno d'un paesaggio solido ma ora come sfuggente; ci accorgiamo che il poeta non fa che seguire una delle tante linee vettoriali lungo le quali si muovono gli altri uomini presenti in questo spazio, «gli uomini che non si voltano»; è dunque su un molteplice movimento rettilineo e uniforme che si chiude la poesia.
Resta il dubbio se questi altri uomini fossero spariti anche loro durante l'istante in cui il mondo era sparito. Tra gli oggetti che tornano ad «accamparsi» ci sono gli alberi ma non gli uomini (le oscillazioni della mia memoria portano a esiti filosofici differenti), quindi gli uomini potrebbero essere rimasti lí; la sparizione del mondo, così come resta esterna all'io del poeta, così potrebbe risparmiare ogni altro soggetto dell'esperienza e del giudizio. Il vuoto fondamentale é costellato di monadi, popolato di tanti io puntiformi che se si voltasseró scoprirebbero l'inganno, ma che continuano ad apparirci come schiene in movimento, sicure della soliditá della loro traiettoria.

...Il vuoto dietro di me
La mia lettura di Forse un mattino si può così considerare conclusa. Ma essa ha messo in moto dentro di me una serie di riflessioni sulla percezione visiva e l'appropriazione dello spazio. Una poesia vive anche per il potere d'irradiare ipotesi divagazioni associazioni d'idee in territori lontani, o meglio di richiamare e agganciare a se idee di varia provenienza, organizzandole in una mobile rete di riferimenti e rifrazioni, come attraverso un cristallo.

Il «vuoto» e il «nulla» sono «alle mie spalle», «dietro di me». Il punto fondamentale del poemetto è questo. Non è una indeterminata sensazione di dissoluzione: è la costruzione d'un modello conoscitivo che non è facile da smentire e che può coesistere in noi con altri modelli più o meno empirici. L'ipotesi può essere enunciata in termini molto semplici e rigorosi: data la bipartizione dello spazio che ci circonda in un campo visuale davanti ai nostri occhi e un campo invisibile alle nostre spalle, si definisce il primo come schermo d'inganni e il secondo come un vuoto che è la vera sostanza del mondo.

Sarebbe legittimo aspettarsi che il poeta, una volta constatato che dietro di lui c'è il vuoto, estendesse questa scoperta anche nelle altre direzioni; ma nel testo non c'è nulla che giustifichi questa generalizzazione, mentre il modello dello spazio bipartito non viene mai smentito dal testo, anzi è affermato dalla ridondanza del terzo verso: «il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro-di me». Durante la mia frequentazione puramente mnemonica del poemetto, questa ridondanza alle volte mi causava delle perplessità, e allora tentavo una variante: «il nulla a me dinanzi, il vuoto dietro-di me»; cioè il poeta si volta, vede il vuoto, torna a girare su se stesso e il vuoto s'è esteso da tutte le parti. Ma riflettendo capivo che qualcosa della pregnanza poetica andava perduta se la scoperta del vuoto non era localizzata in quel «dietro».

La divisione dello spazio in un campo anteriore e in un campo posteriore non è soltanto una delle più elementari operazioni umane sulle categorie. È un dato di partenza comune a tutti gli animali, che comincia assai presto nella scala biologica, da quando esistono esseri viventi che si sviluppano non più secondo una simmetria raggiata ma secondo uno schema bipolare, localizzando in un'estremità del corpo gli organi di relazione col mondo esterno: una bocca e alcune terminazioni nervose di cui alcune diventeranno apparati visivi. Da quel momento il mondo s'identifica col campo anteriore, a cui è complementare una zona d'inconoscibilità, di non-mondo, di nulla, retrostante all'osservatore. Spostandosi e sommando i campi visuali successivi, l'essere vivente riesce a costruirsi un mondo circolare completo e coerente, ma si tratta pur sempre di un modello induttivo le cui verifiche non saranno mai soddisfacenti.

L'uomo ha sempre sofferto della mancanza d'un occhio sulla nuca, e il suo atteggiamento conoscitivo non può che essere problematico perché egli non può essere mai sicuro di cosa c'è alle sue spalle, cioè non può verificare se il mondo continua tra i punti estremi che riesce a vedere storcendo le pupille in fuori a sinistra e a destra. Se non è immobilizzato può girare il collo e tutta la persona, e avere una conferma che il mondo c'è anche lì, ma questa sarà anche la conferma che ciò che egli ha di fronte è sempre il suo campo visuale, il quale si estende per l'ampiezza di tot gradi e non di più, mentre alle sue spalle c'è sempre un arco complementare in cui in quel momento il mondo potrebbe non esserci. Insomma, ruotiamo su noi stessi spingendo davanti ai nostri occhi il nostro campo visuale e non riusciamo mai a vedere com'è lo spazio in cui il nostro campo visuale non arriva. Il protagonista della poesia di Montale riesce, per una combinazione di fattori oggettivi (aria di vetro, arila) e soggettivi (ricettività a un miracolo gnoseoIogico) a voltarsi tanto in fretta da arrivare, diciamo, dove il suo campo visuale non ha ancora occupato lo spazio: e vede il nulla, il vuoto.

La stessa problematica, in positivo (o in negativo, insomma con segno cambiato) la ritrovo in una leggenda dei boscaioli del Wisconsin e del Minnesota riportata da Borges nella sua Zoologia fantastica . C'è un animale che si chiama hide-behind e che sta sempre alle tue spalle, ti segue dappertutto, nella foresta, quando vai per legna; ti volti ma per quanto tu sia svelto lo hide-behind è più svelto ancora e si è già spostato dietro di te; non saprai mai com'è fatto ma è sempre lì. Borges non cita le sue fonti e può darsi che questa leggenda se la sia inventata lui; ma ciò non toglierebbe nulla alla sua forza d'ipotesi che direi genetica, categoriale. Potremmo dire che l'uomo di Montale è quello che è riuscito a voltarsi e a vedere com'è fatto lo hide-behind: ed è più spaventoso di qualsiasi animale, è il nulla.

L'inganno consueto
Continuo con le divagazioni a ruota libera. Si può obiettare che tutto questo discorso si situa prima d'una fondamentale rivoluzione antropologica del nostro secolo: I'adozione dello specchietto retrovisore delle auto. L'uomo motorizzato dovrebbe essere garantito dall'esistenza del mondo dietro di lui, in quanto è munito d'un occhio che guarda indietro. Parlo dello specchietto delle auto e non dello specchio in genere, perché nello specchio il mondo alle nostre spalle è visto come contorno e complemento alla nostra persona. Ciò che Io specchio conferma è la presenza del soggetto osservante, di cui il mondo è uno sfondo accessorio. È un'operazione d'oggettivazione dell'io quella che lo specchio provoca, col pericolo incombente, che il mito di Narciso sempre ci ricorda, dell'annegamento nell'io e conseguente perdita dell'io e del mondo. Invece, il grande avvenimento del nostro secolo è l'uso continuato d'uno specchio studiato in modo da escludere l'io dalla visione. L'uomo automobilista può essere considerato una specie biologicamente nuova per via dello specchietto più ancora che per via dell'automobile stessa, perché i suoi occhi fissano una strada che s'accorcia davanti a lui e s'allunga dietro di lui, cioè può comprendere              in un solo sguardo due campi visivi contrapposti senza l'ingombro dell'immagine di se stesso, come se egli fosse solo un occhio sospeso sulla totalità del mondo.

Ma, a ben vedere, l'ipotesi di Forse un mattino non viene scalfita a questa rivoluzione della tecnica percettiva. Se l'«inganno consueto» è tutto ciò che abbiamo davanti, questo inganno s'estende a quella porzione del campo anteriore che, per essere incorniciata nello specchietto, pretende di rappresentare il campo posteriore. Anche se l'io di Forse un mattino stesse guidando in un'aria di vetro e si voltasse nelle stesse condizioni di ricettività vedrebbe al di là del vetro posteriore della macchina non il paesaggio che andava allontanandosi nello specchietto, con le strisce bianche sull'asfalto, il tratto di strada appena percorso, le macchine che ha creduto di sorpassare, ma una voragine vuota senza limiti.

Del resto, negli specchi di Montale,-come Silvio D'Arco Avalle ha dimostrato per Gli orecchini (e per Vasca e altri specchi d'acqua)-le immagini non si riflettono ma affiorano «di giù», vengono incontro all'osservatore.

In realtà, l'immagine che vediamo non è qualcosa che l'occhio registra né qualcosa che ha sede nell'occhio: è qualcosa che avviene interamente nel cervello,su stimoli trasmessi dai nervi ottici ma che solo in una zona del cervello acquista una forma e un senso. È quella zona lo «schermo» in cui s'accampano le immagini, e se riesco, rivolgendomi, voltando me stesso dentro di me, a vedere al di là di quella zona del mio cervello, cioè a comprendere il mondo com'è quando la mia percezione non gli attribuisce colore e forma di alberi case colli, brancolerò in una oscurità senza dimensioni né soggetti, attraversata da un pulviscolo di vibrazioni fredde e informi» ombre su un radar mal sintonizzato.

Come su uno schermo
La ricostruzione del mondo avviene«come su uno schermo» e qui la metafora non può che richiamare il cinema. La nostra tradizione poetica ha abitualmente usato la parola «schermo» nel significato di «riparo - occultamento» o di «diaframma», e se volessimo azzardarci ad affermare che questa è la prima volta che un poeta italiano usa «schermo» nel senso di «superficie su cui si proiettano immagini», credo che il rischio d'errore non sarebbe molto alto. Questa poesia (databile tra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente all'era del cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre d'una pellicola, alberi case colli si stendono su una tela di fondo bidimensionale, la rapidità del loro apparire («di gitto») e l'enumerazione evocano una successione d'immagini in movimento. Che siano immagini proiettate non è detto, il loro «accamparsi» (mettersi in campo, occupare un campo, ecco il campo visivo chiamato direttamente in causa) potrebbe anche non rimandare a una fonte o matrice dell'immagine, scaturire direttamente dallo schermo (come abbiamo visto avvenire dallo specchio), ma anche l'illusione dello spettatore al cinema è che le immagini vengano dallo schermo. L'illusione del mondo veniva tradizionalmente resa da poeti e drammaturghi con metafore teatrali; il nostro secolo sostituisce al mondo come teatro il mondo come cinematografo, vorticare d'immagini su una tela bianca.

Col mio segreto

Due rapidità distinte attraversano il poemetto: quella della mente che intuisce e quella del mondo che scorre. Capire è tutta questione d'essere veloci, rivolgersi tutt'a un tratto per sorprendere lo hide-behind, è una giravolta su se stessi vertiginosa ed è in quella vertigine la conoscenza. Il mondo empirico invece è il consueto succedersi d'immagini sullo schermo, inganno ottico come il cinema, dove la velocità dei fotogrammi ti convince della continuità e della permanenza. C'è un terzo ritmo che trionfa sui due ed è quello della meditazione, l'andatura assorta e sospesa nell'aria del mattino, il silenzio in cui si custodisce il segreto carpito nel fulmineo moto intuitivo. Un'analogia sostanziale unisce questo «andare zitto» al nulla, al vuoto che sappiamo essere origine e fine del tutto, e all'«aria di vetro,-arida» che ne è la parvenza esteriore meno ingannevole. Apparentemente questa andatura non si differenzia da quella degli «uomini che non si voltano», i quali hanno forse anche loro, ognuno a suo modo, capito, e tra i quali il poeta finisce per confondersi. Ed è questo terzo ritmo, che riprende con passo più grave le note lievi dell'inizio, a dare il suo suggello alla poesia.

(I. Calvino, «Forse un mattino andando»,
in AA.VV.,Letture montaliane in occasione dell'80° compleanno del poeta,

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