LA
“CONOSCENZA” DI ZENO?
Magda
Indiveri
A mio padre
1. CONFINI
A Trieste ove son
tristezze molte,/ e bellezze di cielo e di contrada…[1]
In una storia della letteratura intesa come metropoli letteraria, in
quale quartiere si localizzerebbe il romanzo La coscienza di Zeno, che Italo Svevo scrisse tra il 1919 e il
1923?
Sicuramente in quella fertile zona di confine, di periferia, che sono gli
orli smangiati ed irregolari di una città che dilaga in paesaggio.
La liminarità del percorso
sveviano segna il romanzo fin dall’inizio: la particolarità della città di
Trieste, porto aperto a tante culture, la vicinanza/influenza dell’impero
asburgico, la mescolanza di culture, religioni e lingue, la presenza di grandi
scrittori europei, l’accoglienza precoce della nuova scienza psicoanalitica,
sono elementi che arricchiscono la scrittura di Svevo ma allo stesso tempo la
isolano rispetto all’idea di letteratura che l’Italia macinava in quegli anni.
Eppure, le periferie hanno tratti comuni: nei medesimi anni, un “po’ più
al sud”, Luigi Pirandello (tra il 1904 e il 1925) scriveva i suoi due romanzi Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila che
dibattevano le stesse questioni[2]; in
una sbalorditiva congiunzione di date, da far invidia al nevrotico Zeno, in
Francia Marcel Proust man mano scriveva (tra il 1913 e il 1922) la Recherche , a Praga erano composti tra il 1913 e
il 1922 i racconti e i romanzi kafkiani, e nel passaggio tra Trieste e Parigi
Joyce completava l’Ulysses (1922). A
questi testi La coscienza di Zeno viene
avvicinata.
Si aggiunga infine la personale storia di Svevo, Aron Ettore Schmitz per
l’anagrafe, figlio di ebrei con nonno tedesco, portatore di culture e lingue
diverse (in ordine di conoscenza il dialetto triestino, il tedesco, l’italiano),
passato al cattolicesimo a causa del matrimonio, con un “io diviso” frutto di
regolari studi commerciali e di individuali studi letterari (due luoghi-sponda
della sua formazione: l’Istituto commerciale “P. Revoltella” e la Biblioteca civica in
cui andava a leggere classici italiani). Liminari anche i suoi tempi di
produzione: i primi due romanzi scritti a 31 e 36 anni; La coscienza pubblicata e
finalmente riconosciuta nel suo valore quando Svevo aveva cinquantotto anni,
cinque anni prima della morte. Per la ricezione di massa, un romanzo “postumo”.
“Se Tonio Kröger
è un borghese sviato dall’arte, Svevo è un artista che la vita borghese è stata
sul punto di deviare dalla poesia, o almeno dalla sua passione esclusiva”
(Claudio Magris).[3]
Dunque, anche nel suo doppio ruolo, impiegato di banca e scrittore, sta
il suo confine.
Il protagonista del romanzo è quell’io “male sbozzolato” di cui parlerà
Andrea Zanzotto, un uomo in abbozzo – in via di adattamento doloroso alla
modernità, in dissidio con l’ordine universale (umano) , inetto e privo di
qualità, in una “vita senza più lineamenti fissi”(Montale), costretto suo
malgrado ad accettare la condizione di transitorietà del moderno, di fronte a
un mondo “grande deserto” in cui l’artista guarda se stesso “con occhi
asciutti” (Sbarbaro). Questa dolorosa coscienza ha il costo altissimo della
malattia.
Svevo, che poeta non è, coglie quel “sentimento del mondo” che i poeti
italiani in quegli anni andavano elaborando: non a caso sarà un poeta, Eugenio
Montale, a riconoscerne per primo in Italia l’originalità: La coscienza di Zeno, il “poema della nostra complicata pazzia
contemporanea”, secondo la sua definizione.
Una letteratura di confine dunque che sostituisce al “viaggio intorno
alla propria camera”, il periplo di se stessi, la microanalisi della realtà
come unica autenticità possibile.
In quale punto della nostra tentacolare città letteraria contemporanea si
trova oggi La coscienza di Zeno? Seguendo
un non breve iter, il romanzo è
entrato nel canone del Novecento, è stato integrato con tutti gli onori in
postazioni centrali, collocandosi tra i grandi europei, precursore – da molti
critici si afferma – della ricca stagione novecentesca italiana il cui nome
capofila è quello di Carlo Emilio Gadda. Eppure, nella sua canonizzazione,
Svevo/Zeno rischia ancora la marginalità, la cristallizzazione in etichette
datate. Bisogna invece che i confini restino aperti perché il romanzo parli,
oltre che ai lettori, agli scrittori di oggi: ha ancora molto da dire.
2. SAPERI
Tu ignori questo male che s’apprende/ in noi…[4]
Il titolo del romanzo rimanda a un sapere, ad una consapevolezza, ad una
cognizione. Ma molto ragionevolmente Alfonso Berardinelli intitola un suo
recente saggio su Zeno “la salute impossibile e la saggezza inutile”.[5]
In primo luogo, è lo scrittore Svevo che si pone l’obiettivo primario
della conoscenza di sé: “Io voglio soltanto attraverso queste pagine arrivare a
capirmi meglio […] arrivare al fondo tanto complesso del mio essere”(dal Diario, 1902).
E all’inizio dell’intervento che Svevo doveva tenere su Freud, e che fu
invece su Joyce, Soggiorno londinese (1927), dice: “Il Dr. Ferrieri mi disse: -
Parli di quello che vuole, parli di quello che sa. - Ora io credo di sapere
qualche cosa a questo mondo: su me stesso”.
Confermava ai tempi del collegio bavarese Elio Schmitz, morto
prematuramente, compagno attento della formazione di scrittore del fratello:
“La sua maggior vita la trova nella sua mente e in se stesso”.
Svevo, inquieto, perfino in una lettera alla futura sposa si proclama
“l’ultimo prodotto della fermentazione del secolo… che non sa volere
intensamente altro che la quiete o la soddisfazione breve. […] Io creato per la
ribellione, per l’indifferenza, per la corruzione, sempre ammirato di quello
che potrebbe essere…”.
Questa ansia di sapersi diventa
elemento caratterizzante del personaggio Zeno, che lo psicoanalista avverte
“…tanto curioso di se stesso” ed invita ad “arrivare a vedersi intero”.
Acutamente lo definisce Alberta, quella delle sorelle Malfenti che rifiuta di
sposarlo perché ha il segreto sogno di diventare scrittrice: “senza saperlo,
sapete molte cose, mentre i miei professori sanno esattamente quello che
sanno”. Zeno appare diverso dagli altri, per la sua coscienza: eppure, non smette di ammirare i “lottatori”, coloro che
agiscono senza sapere: “Dalla sua ignoranza gli risultava
forza e serenità ed io m’incantavo a guardarlo, invidiandolo” (si riferisce al
suocero Giovanni Malfenti, che sceglie come mèntore, dopo la morte del padre).
La coscienza di Zeno è la prima immagine che ci appare nell’esordio del
romanzo: Zeno si siede su una poltrona, ligio ai dettami del dottor S.: “Il mio
pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo... S’alza, s’abbassa…”.
A questo Zeno associa, sùbito dopo, l’immagine di un vagone ferroviario,
che più avanti recupererà come immagine simbolo (associazione comme il faut secondo i dettami
psicoanalitici) del respiro del padre morente. Il pensiero dunque, la
coscienza, sono equiparati al respiro, allo pneuma vitale, sono la vita stessa. La
coscienza è la consapevolezza di essere vivi – e malati.
“Giova guarire? Giova che si viva?” (chiedeva Guido
Gozzano ai cari morti). La vita cosciente è malattia. “Solo noi malati sappiamo
qualche cosa di noi stessi”.
Il padre di Zeno
tenta nelle ore precedenti l’agonia di comunicare col figlio “eppure so tante
cose, anzi tutte le cose io so . […] Si tratta anzi di trovare una parola, una
sola e la troverò!” Ma di quella scena tragica e potentissima converrà
riparlare.
Larga parte del romanzo e del tempo concesso a Zeno è dedicata a capirsi
anche grazie alla nuova scienza psicoanalitica: “Ma c’è la scienza per aiutare
a studiare se stesso. Precisiamo anche sùbito: la psicanalisi”. Zeno rincorre
la comprensione in ogni situazione e momento: perfino in viaggio con la sposa,
a Venezia, “io invece sentivo, con pieno sconforto me stesso”, dove il verbo
sentire assume un valore concreto, quasi un sapore: è il “sentire con triste
meraviglia” del “meriggiare” montaliano.
Poi, in pieno rigetto da disillusione, la psicoanalisi sarà vista da Zeno
come cura inutile, addirittura peggioramento della propria condizione e
rifiutata. “E
perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all'umanità
quello che essa ha di meglio?” domanda Svevo in una lettera a Valerio Jahier,
negli anni già del successo del romanzo.
Il sapere finale è quello della guerra: “Attonito e inerte stetti a
guardare il mondo sconvolto”.
Di fronte al conflitto mondiale, le cose cambiano sembianze; il dolore
individuale prende le forme di quello universale. Zeno si dichiara guarito, ma
non sa perché è stato assolto, come il signor K. de Il Processo non sa perché è stato condannato. è Mario Lavagetto[6] a
proporre questa prospettiva inquietante, perché si tratta di una assoluzione
che pesa come una condanna.
Non si guarisce dalla coscienza della vita.
3. STRATI
Piani di sole e liste/
d’ombra, di chiazze/ bianche e larghe segnati…[7]
a. Strati temporali
La coscienza di Zeno risulta composta da quattro strati: la lettera di
accompagnamento del dottor S; il grosso nucleo centrale (composto da 6
capitoli) scritto in un’unica soluzione; il capitolo finale che si biforca in
due fasi: una reca la data del maggio 1915; l’ultima risale al 1916.
Il tempo narrativo ha dunque delle cesure,
delle ellissi; nella tranche del 1915
ancora si mantiene l’organizzazione tematica, centrata questa volta proprio
sulla terapia psicoanalitica; solo l’ultima parte è un racconto in presa
diretta, la cronaca degli avvenimenti vicini: qui l’io complesso di Zeno si
brucia al fuoco della realtà della guerra, confermando che quello è il
discrimine, che si entra nel ‘900 (secolo breve e terribile) con la prima
guerra mondiale.
Le stratificazioni temporali sono essenziali all’architettura
dell’insieme. La prima lettera del dottor S. è dunque l’ultimo testo in ordine
di tempo e la delusione del dottore è complicata perché riguarda parecchie,
reiterate dichiarazioni di guarigione di Zeno. Una delusione talmente forte da
fargli superare la deontologia, la correttezza, il segreto professionale. Una
pubblicazione che sembrerebbe avere come scopo, a parte il poco nobile
dispetto, di far tornare alla cura Zeno, dimostratosi in passato “tanto curioso
di conoscersi”. Un invito, infine, ad una “analisi interminabile”, cui invece
Zeno ha già risposto con un tragico rifiuto.
Non sappiamo se questa lettera sia stata pensata al nascere del romanzo o
se sia stata meditata nel corso della stesura. Essa sta, da sola, nel novero
illustre delle soglie narrative cui gli scrittori nel tempo si sono affidati,
nel gioco dei rimandi della scrittura: solo per citarne alcuni, il manoscritto
trovato e ricopiato che diventa I
promessi sposi, la lettera dell’editore che complica ulteriormente la
ricezione delle Relazioni pericolose,
l’epistola di accompagnamento dell’amico Lorenzo alle Ultime lettere di Iacopo Ortis. E Umberto Eco che traduce l’abate
Vallet, che riporta a sua volta il manoscritto di Adso da Melk, ne Il nome
della rosa. Un espediente letterario che fa proliferare narratori e punti
di vista e che in epoca di studi narratologici diede adito ad interpretazioni
labirintiche.
Certo, crea uno schermo, una lente, la presenza inquietante del
destinatario fittizio della scrittura zeniana, che stando sulla soglia (- sono
qua, sono io colui a cui Zeno scrive -) segnala con la sua figura - come un
capolettera da manoscritto medievale - una distanza. Inaugura la lettura -
nella finzione è il primo che ha letto quelle pagine - e ne dà un giudizio
(“verità e bugie”) con cui i lettori di secondo grado dovranno fare i conti.
Rivediamo
dunque la trama tenendo in conto le date: all’inizio del 1914 Zeno Cosini si fa
visitare dallo psicanalista dottor S., il quale, prima di intraprendere la cura, e dovendo egli assentarsi per
lungo tempo, invita il paziente a raccontare per iscritto la sua vita a partire
dalla nascita fino a quell’anno. Dunque fra il gennaio e l’aprile del 1914, in tre mesi, Zeno
scrive le sue “confessioni”, (nelle quali hanno particolare risalto periodi
compresi fra il 1890, anno della morte del padre, e l’estate del 1897, anno in
cui egli si reca in una clinica per smettere di fumare), e consegna il
manoscritto ( cioè i capitoli 2-7) al dottore. Nel novembre dello stesso anno,
Zeno incomincia la cura che si protrae, senza alcun risultato, fino all’aprile
del 1915. Nel maggio, Zeno decide di interrompere la terapia, scegliendo di
farsi curare dal dottor Paoli, e descrive in forma di diario la sua vita fino
al marzo 1916. In
seguito fa avere anche questo secondo manoscritto al dottor S. il quale lo pubblica per
vendetta. Si tratta dunque di due anni e mezzo di storia, ma di molti più anni
di racconto, condotto con anacronie ed accelerazioni.
La distribuzione dei fatti per temi permette a Zeno di tornare anche più
volte sulle stesse date, di dislocare la storia su piani temporali diversi. Per
questo i critici, seguendo le dichiarazioni di Svevo stesso, hanno parlato di
un “tempo misto”. Dice Zeno proprio riferendosi al tempo “da me, solo da me
ritorna”; “da me le cose si ripetono”. E’ in pratica un tempo esistenziale: gli
eventi si strutturano e si organizzano nella coscienza del protagonista,
divengono questa coscienza.[8]
b. Strati spaziali
Il dottor S. vorrebbe che Zeno continuasse lo scavo interiore, ma di
scavo non si tratta, in Zeno: conviene piuttosto parlare di evocazione, di
movimento a rovescio, dal basso verso l’alto che poi conduce ad una
orizzontalità. Ricordi di epoche diverse emergono e convivono su una linea
continua, e dunque Zeno non è il palombaro che scende nei recessi della psiche,
ma il pescatore di perle che le porta in superficie. Già Montale aveva notato
che “le voci salgono qui dal sottosuolo
né questa regione buia è data, almeno visibilmente, come zona di tragedia”. E’
dunque una dislocazione spaziale quella che Zeno compie, secondo i dettami del
suo autore: “si deve tentar di portare a galla dall’imo del proprio essere,
ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche
cosa…”. Più e più volte, al riemergere
del ricordo, Zeno usa il tempo presente, quasi lo chiama all’appello, dichiara
di vederlo davanti a sé vivido come fosse attuale (“due paia di calzoncini che
stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò”), come
fosse oggetto, residuo appunto.
A questo livello orizzontale rispetto al tempo di Zeno e del lettore,
composto da strati paralleli di avvenimenti a tema, corrisponde poi una
distanziazione fornita dall’ironia. L’approccio comico nei confronti del mondo
che ci offre Zeno, la sua tendenza a ridere delle cose più serie che tanto
inquieta il padre, il suo vincere attraverso l’errore, in un reiterato percorso
zigzagante per cui sbagliando alla fine ottiene il meglio per sé, il suo
provare sentimenti sbagliati nel luogo sbagliato (il suo salire il colle sentendosi
vincitore, dopo aver eluso il funerale del cognato), producono un messaggio
subliminale per il lettore: “questo è un gioco”, e lo coinvolgono in una
necessaria complicità. Ugualmente l’inattendibilità di molte dichiarazioni
zeniane, le incongruenze, inaugurano un grado di cooperazione interpretativa
che fanno de La Coscienza di Zeno territorio di sperimentazione
sul rapporto narratore-lettore di grande interesse, esprimibile sotto la
categoria dell’ambiguità narrativa[9]
tipica, ad esempio, dei romanzi filosofici settecenteschi. (Candido, Tristram Shandy…).
Ma il riso di Zeno è intimamente amaro. E’ il riso dell’uomo che
“s’impiglia”[10] e per questo allontana
progressivamente da sé il segno, la meta. Il suo andare e venire sta su di una
linea orizzontale in cui “bisogna moversi” per non inquinarsi, ma come la cavia
dentro una trappola labirintica. (“tutti gli organismi si distribuiscono su una
linea…” è la teoria che Zeno inventa sulla base del morbo di Basedow, folle
dispendio energetico che sta a un capo della linea, mentre all’altro sta la
totale inerzia; la “salute non è che una sosta”.)
Scrive fra
l’altro Magris che “il riso di Zeno nasce da questo vuoto e dall’ironica
dolorosa guerriglia per aggirarlo. Il centro del mondo s’è reso irreperibile”.
c. Strati linguistici
è Giacomo Devoto che parla
per Svevo nel 1938 di un “al di qua della lingua” : contro chi aveva
riscontrato in lui una “non comune imperizia dello scrivere e una curiosa
ostinatezza a non imparare” (U. Morra), il critico vede uno “ sforzo incompiuto
di stabilire una equivalenza di valori tra i suoi fantasmi e gli elementi
grammaticali” e in questa rinuncia legge un invito, come precursore, a
percorrere fino in fondo il cammino che lui ha iniziato. [11]
Calchi dal tedesco e dialettismi sono solo uno degli aspetti della lingua
sveviana, lingua comunque dichiarata dall’autore straniera: “la lingua italiana
per me restò definitivamente quella che si muove nella mia testa isolata”,
lingua per usare la quale è necessario il vocabolario.
Curioso che fosse questa la stessa risposta che si racconta desse Tolstoj
a chi gli chiedeva di che parlasse Anna
Karenina.
Svevo si diverte poi ad instaurare rapporti ludici con i nomi: se Zeno è
da molti apparentato a xenòs
straniero, agli antipodi dell’alfabeto stanno le A delle sorelle Malfenti
(sempre di periferie, di orli si tratta): Fabio Vittorini nota come la A sia la prima lettera e la Z l’ultima lettera del nome
reale e completo di Svevo Aron Ettore Schmitz.[12]
Veri e propri salti poi sono prodotti dalla commistione di ironia,
comicità e pagine di tragica elegia, mentre spesso i racconti si chiudono su
sentenze, assunti gnomici rivolti all’umanità intera.
4. MALATTIE
Oh, io sono, veramente malato![13]
Dice Zeno: “La malattia è una
convinzione e io nacqui con quella convinzione”. In realtà è il romanzo, nel
discrimine del Novecento, che nasce sotto il segno della malattia. Da Mann a
Tolstoj, da Dostoevskij, a Michelstaedter, per citare gli scrittori più vicini
cronologicamente a Svevo, corpi malati e menti sofferenti sono protagonisti di
una serie innumerabile di testi narrativi, poetici e teatrali. Il corpo malato
diventa figura del male di vivere e della frammentazione prodotta dalla
modernità.
“Vedersi intero […]; l’amore sano è quello che abbraccia una donna sola e
intera…”, dice Zeno al medico che non vuole capire il suo disagio.
Il sogno dell’uomo contemporaneo è il sogno dell’interezza, della
totalità perduta.
Zeno può definirsi un nevrotico ipocondriaco: un agglomerato di malanni
fisici (dolori alle ossa, ai nervi), manie ossessive, panico, paure di
contagio, fissazioni su rituali come il fumo. Una continua teoria di mali
confessati ed autodiagnosticati (Zeno ha come uno stetoscopio perennemente in
ascolto di se stesso), sottoposti a tentativi di guarigione. La cura
psicoanalitica arriva buon’ultima e tra alti e bassi non produce altro che
l’istigazione – quella sì, benedetta – a scrivere.
Il personaggio del medico prende uno spessore nuovo ed articolato in
dialogo con quello del paziente (Sono sette, i medici presenti ne La coscienza!). Usciamo dal romanzo con
cognizioni mediche precise, con l’informazione su cure le più varie, con
l’immagine di cameriere e contadini che “vanno a chiamare il medico” sotto la
pioggia o l’uragano – immagini che per noi lettori si associano a quelle
inquietanti del kafkiano Medico di
campagna.
Ma risuona altresì la scandita, ironica voce
gozzaniana che mette in poesia il rito di una visita medica in cui i dottori
gli proibiscono, giustappunto, il fumo, le donne e i versi: “e sentono chi sa
quali tarli i vecchi saputi… a che scopo? Sorriderei quasi, se dopo non
bisognasse pagarli...”.
Gilles Deleuze, che insieme ad altri filosofi francesi ha investigato a
fondo la questione della malattia nel Novecento, nota come lo scrittore
contemporaneo goda “di un’irrespirabile salute precaria che deriva dall’aver
visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui
paesaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante
renderebbe impossibili. Da quel che ha visto e sentito, lo scrittore torna con
i timpani perforati”.[14]
Nel susseguirsi di pochi anni (la prima redazione del Racconto di ignoto del novecento da cui germinerà la Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda risale
al 1925), leggeremo di un altro malato immaginario, Gonzalo Pirobutirro, e di
altre nevrosi, tra cui una voracità riversata sul cibo, anziché sul fumo, ma
della stessa inquietudine, la convinzione di una colpa.
In un saggio ricco di suggestioni, Giovanni Pascoli aveva scritto: “Sono millenni che il nostro genere
fugge per diventare umano, fugge da sé per trovar sé, riconoscendo la colpa,
sempre più colpe, nella sua natura”.[15]
“Fugge da sé, per trovar sé”: Svevo era intervenuto in un saggio sul
concetto di evoluzione darwiniana per elaborare una teoria secondo la quale
l’evoluzione umana aveva creato mutazioni fuori da sé, ordigni, che invece che
favorirne la vita comportavano dolore e morte. “Sto aspettando sapendo di non
esser altro che un abbozzo. […] Se l’uomo non avesse avuto l’anima inquieta
egli sarebbe ancora il pacifico servo del Mammut e molti malanni sarebbero
stati risparmiati alla nostra terra”
Alla base della visione di Zeno, che per breve tempo studia chimica
all’università, sta una visione della vita umana nel suo complesso, intesa come
fermentazione. La vita è, in qualche modo, una malattia della materia, quale
“il litigio in una grande acqua fra le singole molecole d’acqua quale abbia da
evaporare”, un processo infiammatorio che in un dato momento tornerà a
spegnersi nella purezza dell’inorganico e dell’inanimato. La vita del neonato
che Zeno vede con l’immaginazione nelle prime pagine, forse il nipote, viene
interpretata come “combinazione misteriosa, ogni minuto che passa vi getta un
reagente”.
E di fronte alla malattia di Ada, la teoria si completa: “su tutta la
linea, per tutta l’umanità, la salute assoluta manca”. Addirittura “in
qualunque punto dell’universo ci si stabilisca, si finisce coll’inquinarsi.
Bisogna moversi. Solo correndo…”.
Ma verso dove?
Il romanzo, centrato sulla malattia, dedica molto spazio al morire. Il
capitolo 4 è intitolato “La morte di mio padre”; il capitolo 7 racconta per
esteso, oltre al fallimento economico della ditta, anche il lungo tentativo,
riuscito, di suicidio di Guido.
L’avvenimento “più importante” della vita di Zeno, una “vera, grande
catastrofe” entra in scena in tono sommesso, con digressioni e racconti lievi
sul rapporto contraddittorio tra padre e figlio negli anni precedenti. Poi, la
formula temporale: “una sera, alla fine di marzo…”: Zeno è in ritardo e il
padre lo attende, cenano con imbarazzo, il padre vorrebbe dirgli qualcosa ma
non riesce, nella notte si lamenta e perde conoscenza, e poi da quel momento ci
saranno lunghi giorni di agonia e di presunto miglioramento, fino alla fine.
Una morte protratta, perché più volte Zeno, e il lettore con lui, crederà di
assistere al momento estremo.
Sono tre gli elementi che ricorrono in questa rappresentazione della
morte: la corsa, il respiro, la coscienza. La respirazione paterna è fin da
sùbito frettolosa: “Non potevo respirare a lungo su quel metro e m’accordavo
delle soste sperando di trascinare con me al riposo anche l’ammalato. Ma egli
correva avanti instancabilmente”. Poi il respiro “si raggruppò in periodi” in
quella che Zeno al dottore definisce una “respirazione cerebrale”. Questo fiato
d’affanno, il ritmo di questo respiro, sarà lied
di tutta la scena. Connesso al respiro, la corsa, la “vana corsa”:
all’accorgersi dell’agonia, Zeno rammenta cose dette la sera prima e pensa che
il padre “s’era mosso per andar a vedere chi di noi due avesse ragione”.
Vale la pena collegare questo momento con un passo molto successivo, la
notte in cui (cap. VII) insieme a Guido, Luciano e Carmen, Zeno va a pescare e
con la sua solita stramba fortuna prende all’amo un’orata. “E nell’acqua fosca si vide brillare l’argenteo corpo
del grosso animale. Correva ormai rapidamente e senza resistenza dietro al suo
dolore. Perciò compresi anche il dolore dell’animale muto, perché era gridato
da quella fretta di correre alla morte”. Ecco allora che nella linea della
vita, a questo punto non solo umana, il correre incessante è il respiro verso la
morte, la coscienza (se respiro e coscienza coincidono) della morte.
Un segnale di collegamento tra i passi è dato dall’aggettivo fosca: fosca è anche l’alba in cui Zeno
accompagna il dottore nel giardino pieno di neve. Biancore e l’aggettivo fosco ritornano, nella notte precedente
a quell’alba: “Allora l’ammalato aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti alla luce. Io singhiozzai ancora, temendo
che sùbito guardassero e vedessero tutto. Invece, quando la testa dell’ammalato
ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero, come quelli di certe
bambole”.
Perfetta intuizione dello sbalordimento della morte, che richiama i versi
de Il Lampo di Giovanni Pascoli,
secondo l’acuta lettura di Vito Bonito: “Nel lampo lo sguardo di un morente […]
Occhio che sbatte, pupilla attonita, ferma, a circondare, nel suo bianco di
vetro, una casa. Poesia dell’assoluto visibile. Del bianco che si apre nella
notte nera, e lì muore – inghiottito”.[16]
In tutto l’episodio, giocato su questo ritmo lento, ansimante, fatto di
continui ritorni, l’occorrenza della parola coscienza è altissima: dodici
volte. Il medico cerca di riportare alla coscienza il moribondo, Zeno teme che
il padre capisca e si ribella per il terrore di “veder risorgere quella
coscienza”. Ma è poi per obbedire al medico che costringe a letto l’uomo che
invece si alza e, come ultimo atto, fa cadere uno schiaffo sul viso del figlio,
pronunciando forse quella parola che aveva affannosamente rincorso: “Muoio”.
“La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e
minaccioso”. Il sottotesto parla di un dolore: il figlio non compreso dal
padre, l’oltraggio immeritato, che Zeno tenterà di sanare con la psicoanalisi.
Ma l’eco fonica di questa espressione si riverserà per il lettore sulla scena
della morte di Guido: “La rigidezza già avanzata esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto
senz’averlo voluto”.
Una morte incosciente.
5. SORRISI
Ripenso
il tuo sorriso, ed è come un’acqua limpida…[17]
“Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s’era rimessa al
suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse
per ammattire per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto
impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia
moglie”.
Il sorriso della madre alle nevrosi del marito, il sorriso di Augusta,
sono: il sorriso della donna che è “migliore del maschio/ È come sono tutte/ le
femmine di tutti/ i sereni animali/ che avvicinano a Dio”.[18]
Parrebbe il segno, portato sulle labbra, di una sana incoscienza
femminile di cui Zeno raggiunge consapevolezza durante il suo matrimonio. La
moglie aveva in mano le grandi leggi della natura, “la terra girava, ma tutte
le altre cose restavano al loro posto”, e perfino del tempo:
“esistevano quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto”. Cosa dà alla
donna questo potere? Forse la capacità di guardare il mondo al di fuori di sé:
“Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un
giardino, verde e fresco [...] Un campanile […] una viuzza [...] Io invece,
nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso”.
La conclusione a cui arriva Zeno è che la moglie possieda la salute,
quella salute che “non analizza se stessa e nemmeno si guarda nello specchio”,
e spera, standole vicino, di parteciparne.
La terra ed il tempo: Augusta conosce l’ordine del mondo e vive
nell’eterno presente, “verità tangibile in cui segregarsi e stare caldi”.
Implicitamente Zeno la paragona alla mosca che, acciaccata la zampetta, si
strofina le ali saldamente convinta che la salute tornerà. Dunque Augusta
“batté la via
per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che
possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto
rinunziano”.
Si attua l’ultima illusione, che discende direttamente dalle elaborazioni
della poesia provenzale e toscana, che la donna dia, porti, possieda la salute.
Di lì a poco arriveranno Virginia Woolf, Sylvia Plath, Elsa Morante,
Amelia Rosselli… a dire che no, non c’è pacificazione neppure nell’universo
femminile (una loro ombra è forse Alberta, che dice di non amare la lietezza).
6. PROFEZIE
(Anche
il cielo stellato finirà)[19]
La forza dirompente della profezia, come specchio che proietta sul
presente le ombre del futuro, tacita e al tempo stesso esalta il grande
precipizio di terrore in cui la prima guerra mondiale fa crollare ogni mito del
progresso: la paura della fine dell’umanità.
Secondo Zeno, che per tutto il romanzo ha parlato di ordigni, di malattia
e di evoluzione imperfetta, è consequenziale prevedere a livello universale una
conclusione, in cui la malattia di un individuo porti alla distruzione
collettiva. Ha a disposizione un grande modello: quel Giacomo Leopardi, già
sotteso a tanti ragionamenti sulla natura umana, che conclude una delle Operette morali, il Cantico del gallo silvestre, con la grandiosa immagine di un
universo fuori dal tempo: “Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima,
sarà spenta […], ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo
spazio immenso”.[20]
La distruzione dell’io come necessaria conseguenza della modernità
ricorre anche nel finale di Uno, nessuno
e centomila, quando Vitangelo Mostarda alla fine sopravvive solo in quanto
privo di una definita individualità: “rinasco nuovo e senza ricordi, vivo e
intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”, in una dissoluzione che però
ancora riguarda il destino individuale.
Nel 1902, all’interno del poemetto Il
Ciocco, Pascoli aveva una visione dell’universo impazzito che componeva in
profezia: “Tempo sarà che tu, Terra percossa,/ dall’urto d’una vagabonda mole/
divampi come una meteora rossa/ e in te scompaia, in te mutata in Sole,/ morte
con vita, come arde e scompare/ la carta scritta con le sue parole”.[21]
Pirandello rimane fermo al tramonto dell’individuo, Pascoli presume una
collisione come causa naturale della distruzione dell’universo. Solamente Italo
Svevo collega la distruzione dell’umanità alla malattia.
Per questo il finale del romanzo è una pagina
altissima, che in poche righe lucide e asciutte ottiene l’effetto di una
visione apocalittica così potente, da riverberarsi sempre di più man mano che
cronologicamente ce ne allontaniamo. “Ed un altro uomo, fatto anche lui come
tutti gli altri ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e si
arrampicherà al centro della terra…”.
Leggere quelle righe oggi ci fa sentire tragicamente
dentro l’attuazione della profezia.
7. SCRITTURE
Nulla
è sicuro, ma scrivi.[22]
“Sarebbe bene
che tu mandassi a mente la tua vita”.
Zeno rivolge questo consiglio al fantolino
immaginato, ad apertura del romanzo, mentre è seduto in poltrona con un foglio
e la matita in mano, e questi attrezzi sono il lasciapassare per la
rimemorazione della vita passata, che “…era dimenticata, perduta per sempre.
Mercè la matita che ho in mano, resto desto”.
Non si tratta solo di pedissequa obbedienza ai
dettati dello psicoanalista; un po’ alla volta Zeno elabora, da questa
occasione, la teoria per la quale mandando a mente, o meglio trascrivendo, i
singoli momenti di una vita questi rimangano vivi. Teoria che Svevo, negli anni
di astensione dalla letteratura, aveva più volte ribadito nel suo diario.
2 ottobre 1899: “Si deve tentar di portare a galla
dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo
fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia
o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di
sincero, anatomizzato, e tutto e non di più….Insomma, fuori dalla penna non c’è
salvezza”.
Appunto del 1906: “(la vita) fu molto piena di sogni che io non notai né
ritenni. Non rimpiango di aver goduto abbastanza ma sinceramente rimpiango di
non aver fissato tutto questo periodo di tempo. Del resto, guai se ci fossero
molti altri che sentissero come me! Povera umanità! Quante autobiografie!”
13 giugno 1917: “Io stesso finirei col credere di essere stato sempre
come sono oggi, mentre pur ricordo degli odii e degli amori che non ho più… ma
avendo annotato tanto poco, non posso verificarlo”.
Dalla Confessione di un vegliardo,
4 aprile 1928: “Come è viva quella vita e com’è definitivamente
morta la parte che non raccontai; vado a cercarla talvolta con ansia,
sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche che quella parte che raccontai
non è la più importante. Si fece più importante perché la fissai ed ora che
cosa sono io? Non colui che vissi, ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte
della vita è il raccoglimento”.
Sempre da quelle pagine, che rappresentano la continuazione di Zeno: “La
cura non riuscì, la mie carte restarono. Come sono preziose! Mi pare di non
aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi. […] Ed esse sono là,
sempre a mia disposizione, sottratte a ogni disordine. Il tempo vi è
cristallizzato e lo si ritrova se si sa aprire la pagina che occorre. Come in
un orario ferroviario”.
La scrittura è dunque per Svevo la cura alla volatilità della vita.
Addirittura scrivere mette in ordine, dà una scala di valori, trasceglie gli
avvenimenti e li illumina. Si sta qui parlando, beninteso, del puro resoconto,
di quella scrittura “di servizio” che diventa autobiografia o diario, generi
con proprie peculiarità. Svevo ne è ben conscio, perché mentre continua a
scrivere il suo Diario afferma: “Io a
quest’ora ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si
chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso queste pagine arrivare a
capirmi meglio” (1902). E altrove: “Dopo l’insuccesso di Senilità io proprio m’interdissi la letteratura” (lettera a Montale
del 17 febbraio 1925).
Egli dunque distingue tra il resoconto che serve a mantenere in vita la
vita e quel lavoro letterario, proibito ed esecrando, che per venticinque anni
aveva rifuggito come il vizio del fumo.
La discrasia tra autobiografia e romanzo va rammentata, se non si vuole
cadere nella trappola del credere La
coscienza di Zeno scrittura memoriale tout
court, e di far pericolosamente coincidere Italo Svevo con Zeno.
Il diario ha due limiti: chi scrive passa il confine e si trasforma da
colui che ha vissuto i fatti narrati a colui che li guarda e li testimonia. Non
vive, o meglio vive nello scrivere. Inoltre, scrivere è trasformare la vita in
passato, è invecchiare – come la macchina da presa filma la morte della tigre,
nelle acute pagine pirandelliane di Serafino
Gubbio operatore.
Per questo bisogna passare dall’autobiografia all’opera d’arte.
Ancora dal diario del 1899: “Ma d’altronde questa paginetta scritta sotto
l’impressione di un dato momento, del colore del cielo, del suono della voce di
un proprio simile, non diverrà mai altro di quello ch’è; la pagina più sincera
ma di un’impressione troppo immediata e violenta. Non bisogna pensare di
rappezzare con tali pagine qualche cosa di maggiore. Napoleone usava notare
quanto non voleva più dimenticare in un foglietto di carta che poi stracciava.
Stracciate anche voi le vostre carte oh! formiche letterarie: Fate in modo che
il vostro pensiero riposi sul segno grafico col quale una volta fissaste un
concetto, e vi lavori intorno alterandone a piacere parte o tutto, ma non
permettete che questo primo immaturo guizzo di pensiero si fissi subito e
incateni ogni suo futuro svolgimento”.
Fissare, cristallizzare: sono i pericoli di una letteratura memoriale
che, inchiodando il ricordo come farfalla nella teca, la condanna per sempre
alla perdita della vivezza. Ecco allora il ruolo salvifico dell’immaginazione e
dell’uso dell’immagine, che “deve restare fluida come la vita che è e diviene”
(1927); lo scrittore deve intervenire in quegli spazi lasciati dal ricordo,
negli interstizi non ancora cristallizzati ed immettervi la materia fluida
fornita dall’immaginazione.
“L’artista, quando ricorda,
subito crea. […] Forse in Stephan Dedalus s’è intrufolata anche qualche altra
persona. Ma è tanto fuso, tanto intero, ch’è impossibile di scoprire nella sua
immagine le giunture del pezzo rimesso come in un lavoro di falegnameria”.
Svevo sta parlando di Joyce, ma naturalmente la riflessione sulla scrittura
riguarda se stesso.
Svevo artista mette in scena Zeno autobiografo.
La nozione di letteratura in Svevo si fonda su di un progetto di
accumulazione, di letteratura/torre, muro compatto e invalicabile, difesa
all’inermità dell’uomo, una vita metaletteraria che condurrà agli esiti
dell’ultimo Calvino, e forse può stare alla base delle nuove forme di scrittura
multimediali.
Di fronte alla “vita tanto vuota”, alla “vita orrida vera”, Zeno
vegliardo ha solo un grido “Io voglio scrivere ancora”.
[1] U. Saba, Tre vie (1912), in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1988.
[2] R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Milano, Mursia,
1972.
[3] C. Magris, La scrittura e la vecchiaia selvaggia: Italo
Svevo, in Id., L’anello di Clarisse. Torino,
Einaudi, 1984.
[4] G. Gozzano, Signorina Felicita, (1911), in Tutte le poesie, Milano, Mursia,1993.
[5] A. Berardinelli, in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, V,
Lezioni, Torino, Einaudi,2003.
[6] M. Lavagetto, Introduzione
a Zeno, Torino,
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[7] C. E. Gadda, Piani di sole e liste, (1919) in Poesie , a cura di M.Antonietta
Terzoli,:,Einaudi, Einaudi, 1993.
[9] G. Savelli, L’ambiguità necessaria-Zeno e il suo lettore, Milano, Franco
Angeli, 1998.
[10] “Perché l’animo tuo tanto s’impiglia”/ Disse il
maestro “che l’andare allenti?” Purg., V, 10-18.
[11] G. Devoto, Studi di stilistica, Firenze, Le
Monnier, 1950.
[13] S. Corazzini, Piccolo libro inutile. (1906) in Opere. Poesie e prose, a cura di A. I. Villa, Pisa-Roma, Istituti
editoriali e poligrafici, 1999.
[14] G. Deleuze , Critica e clinica, Milano, Raffaello
Cortina, 1996.
[15] G. Pascoli, La messa d’oro, in Prose, Milano, Mondadori, 1974.
[16] V. Bonito Il canto della crisalide. Poesia e orfanità, Bologna, Clueb, 1999.
[17] E. Montale, Ripenso il tuo sorriso… in Id.,
Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984.
[18] U. Saba, A mia moglie, in Id., cit.
[19] G. Ungaretti Dannazione, in Vita di un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1986.
[20] G. Leopardi, Operette morali, Milano, Feltrinelli,
1976.
[21] G. Pascoli, Tutte le poesie, Roma, Newton & Compton, 2001.
[22] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Id., Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Torino, Einaudi, 1983.
ORIENTAMENTI BIO-BIBLIOGRAFICI
Aron Hector Schmitz nacque a Trieste, quinto di otto
figli, il 19 dicembre 1861 da Francesco Schmitz, commerciante in vetrami, e
Allegra Moravia, entrambi di origine ebraica. Il nonno paterno si era
trasferito a Trieste dall’Austria. Ettore viene inviato dal padre, insieme col
fratello Elio, più piccolo di un anno, a studiare in un collegio in Baviera le
materie commerciali e le lingue. Dal diario e dalle lettere del fratello
sappiamo che quello fu un periodo di importanti letture di scrittori tedeschi –
Goethe, Schiller, Heine, Jean Paul –, a dimostrazione della sua propensione
letteraria.
Nel
1878 ritornò a Trieste, dove si iscrisse all’Istituto superiore per il
commercio “P. Revoltella”, che frequentò per due anni. La sua reale aspirazione
era divenire scrittore: nel 1880 iniziò una collaborazione con il giornale
irredentista triestino “L'Indipendente”, con articoli letterari e teatrali,
firmati con lo pseudonimo di Ettore Samigli. Esce il primo racconto, L’assassino di via Bel Poggio. Nello
stesso anno il fallimento dell’attività paterna lo costrinse a cercar lavoro e
a impiegarsi presso la succursale triestina della banca Union di Vienna. La
nuova insoddisfacente occupazione è compensata dall’evasione nella letteratura:
frequenta la biblioteca civica e legge i classici italiani e i maggiori
narratori francesi dell'Ottocento. Nel 1886, muore il fratello Elio, suo
confidente, colui che aveva creduto sempre al destino di scrittore di Ettore.
Escono altre novelle e nel 1992, anno della morte del padre, pubblica a sue
spese il primo romanzo, Una vita, con lo pseudonimo di
Italo Svevo, che condensa le due anime dello scrittore (“Caffè
di plebe, dove un dì celavo/ la mia faccia, con gioia oggi ti guardo/ E tu
concili l’italo e lo slavo,/ a tarda notte, lungo il tuo biliardo”. Così
sintetizza l’atmosfera di quegli anni l’altro grande scrittore triestino
Umberto Saba). Il romanzo non ottiene quasi alcuna attenzione.
Nel
dicembre 1895, si fidanza con la cugina di secondo grado Lidia Veneziani,
figlia di un industriale cattolico dirigente di una fabbrica di vernici
sottomarine. Nel luglio del '96 avviene il matrimonio con rito civile, e solo
nel ’97, dopo l’abiura della religione ebraica, con rito cattolico.
Due
anni dopo Svevo pubblica a puntate sull'Indipendente
il suo secondo romanzo, Senilità, che poi ristampa di
nuovo a proprie spese. L’insuccesso anche di questo romanzo lo porta ad
“abiurare” la letteratura, ad escluderla dalla sua vita per venticinque anni,
benché continui a tenere un diario. Nel 1899 entra a far parte della ditta del
suocero e compie lunghi viaggi in Francia e in Inghilterra.
Il
1905 segna un incontro importante: conosce James Joyce che, in esilio da
Dublino, si è stabilito a Trieste, ove insegna inglese alla Berlitz School. I comuni interessi letterari
sicuramente inducono Svevo a ripensare alla scrittura: Joyce apprezza
particolarmente il secondo romanzo, Senilità,
e fra i due s’instaura una profonda amicizia.
L’altro
incontro, questa volta libresco, avviene poco dopo, ed è con la psicoanalisi:
in occasione della cura cui si sottopone il cognato, Svevo s’informa
approfonditamente, legge vari testi, entra in contatto con alcuni allievi di
Freud residenti a Trieste e traduce il breve saggio freudiano Sul sogno. Sappiamo da alcune lettere che
Svevo apprezza la psicoanalisi soprattutto dal punto di vista letterario: “Magari avessi fatto io una
cura con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero”, scriverà
riferendosi a Freud.
Lo
scoppio della guerra porta improvvisamente – ci dice Svevo stesso – a
riprendere la scrittura e in pochi anni è composta La
coscienza di Zeno, pubblicata nel 1923. Anche questa volta non molto interesse proviene
dalla critica, ma le cose cambiano quando Svevo chiede consiglio a Joyce, che
nel frattempo si è trasferito a Parigi: questi legge il nuovo romanzo, se ne
entusiasma ed indirizza Svevo ad alcuni critici di letteratura italiana in
Francia (Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux), che ne decretano il
successo pubblicandone brani tradotti e commenti su riviste importanti. Al
tempo stesso, da Firenze la grandezza de La
coscienza viene riconosciuta dal
giovane Eugenio Montale. Nel 1927 Italo Svevo tiene una conferenza su Joyce a
Milano e pubblica una nuova edizione di Senilità;
scrive
poi molte pagine di quella che doveva essere una continuazione a Zeno. Un
incidente d’auto provoca la sua morte il 13 settembre 1928.
Solo
dopo gli anni cinquanta fu conosciuto dal grande pubblico.
***
1. OPERE DI ITALO
SVEVO
Gli Opera
omnia furono pubblicati dall’editore Dall’Oglio di Milano fra il 1966 e il
1969: vol. I, Epistolario, a cura di
B. Maier, 1966; vol. II, Romanzi, a
cura di B. Maier, 1969; vol. III, Racconti,
saggi, pagine sparse, a cura di B. Maier, 1969; vol. IV, Commedie, a cura di U. Apollonio, 1969.
Un’edizione de La coscienza
di Zeno, con importanti testi di
accompagnamento, è uscita a cura di
M. Lavagetto, Torino, Einaudi, 1987.
Un’edizione critica dei tre romanzi e del
materiale del “quarto romanzo” (Il
Vegliardo) è uscita a cura di B. Maier presso l’editore Studio Tesi di
Pordenone fra il 1985 e il 1987,
in quattro volumi.
Ultima, importantissima acquisizione è I.
Svevo, Romanzi e continuazioni.
Edizione critica di N. Palmieri e F. Vittorini. Introduzione e cronologia di M.
Lavagetto, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 2004,
3 voll., CCCXXIII-5265 pp.
Epistolari
Montale-Svevo, Carteggio,
a cura di E. Zampa, Mondadori, Milano 1976;
Svevo I., Lettere,
con gli scritti di Montale su Svevo, De Donato, Bari 1965.
Carteggio con J.
Joyce, V. Larbaud, B. Crémieux, M. A. Commène, E. Montale, V. Jahier, a cura di Maier B., Dall’Oglio, Milano 1978.
Svevo I., Lettere
alla moglie, a cura di A. Pittoni, Ediz. dello Zibaldone, Trieste, 1963.
Svevo I., Diario per
la fidanzata, con introduzione di G. Contini, Mondadori, Milano 1997.
2. STUDI SU ITALO SVEVO
a. Profili biografici
Veneziani L., Vita di mio marito, con pref. di E. Montale, Dall’Oglio, Milano
1976.
Svevo I., Profilo autobiografico, ristampa anastatica a cura di P. Briganti,
Zara, Parma 1985.
Camerino G. A., Svevo, Utet, Torino 1981.
Contini G., Svevo, Palumbo, Palermo 1996.
Ghidetti I., Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Editori
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Maier B., La personalità e l’opera di Italo Svevo, Mursia, Milano 1961.
b. Approccio storicista e marxista:
Vittorini E., Diario in pubblico, Bompiani, Milano
1957.
Leone De Castris
A., Il decadentismo italiano. Svevo,
Pirandello, D’Annunzio, De Donato, Bari 1974.
c. Approccio stilistico e narratologico
De Lauretis T., La sintassi del desiderio. Struttura e forma
del romanzo sveviano, Longo, Ravenna 1976.
Devoto G, Le correzioni di Italo Svevo, in
«Letteratura», a. II, ottobre 1938, pp. 3-13; ora Decenni per Svevo, in Studi
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Savelli G., L’ambiguità necessaria. Zeno e il suo
lettore, Franco Angeli, Milano 1998.
d. Approccio psicoanalitico
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mitografia del Decadentismo, La Nuova Italia , Firenze 1993.
Gioanola E, Un killer dolcissimo, Il Melangolo,
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