Confronto Pirandello - Svevo


La dissoluzione dell’io nel romanzo moderno (Pirandello e Svevo). L’identità compromessa: dalla paralisi (l’inetto) al riscatto (la follia)

La coscienza della tragica problematicità della realtà esteriore (rapporti sociali, identità sociale) e interiore (l’io, la coscienza) e la critica più o meno corrosiva nei confronti dell’inconsistenza delle norme e delle certezze del sistema di valori tradizionale (borghese, ottocentesco) innescano un processo di “messa in discussione” di sé e del reale che porta – volendo semplificare – a due esiti tra loro interrelati ma molto diversi: a) da una parte alla stasi dell’inetto (il personaggio di cui si è detto intuisce la complessità del reale e del proprio io, critica l’ipocrisia dei ruoli, delle maschere sociali, prova a liberarsi di tutto questo fardello ma non ci riesce e rimane paralizzato, insofferente alle norme ma sostanzialmente incapace di liberarsene fino in fondo); b) dall’altra a una forma di riscatto che può coincidere con la follia (come nel caso del protagonista di Uno nessuno centomila, Vitangelo Moscarda) o con la rinuncia all’ideale in nome di una propria felicità personale ed egoistica (come avviene per Zeno Cosini, il protagonista del terzo romanzo di Svevo).

1.Uno nessuno centomila (1925): l’inettitudine e la liberazione dalla prigione della forma
Nell’ultimo romanzo di Pirandello, Uno nessuno centomila, pubblicato nel 1925 ma frutto di una lunga e complessa gestazione durata circa quindici anni (Pirandello si dedica alla stesura dell’opera in contemporanea con l’attività di autore per il teatro e non a caso il romanzo risente molto della scrittura drammaturgica), il protagonista Vitangelo Moscarda è un inetto, addirittura un nullafacente e  proprio a causa del disagio esistenziale che gli impedisce di vivere una vita adulta, capisce il gioco, o meglio intuisce che la vita è un’enorme pupazzata.
a)     Il naso di Vitangelo Moscarda (incipit del romanzo) Un incipit spiazzante
Tutta la tragica vicenda di Vitangelo ha inizio da un evento insignificante – ispezionare le narici del naso allo specchio – e casuale – la scoperta drammatica di un difetto, di una crepa nell’immagine apparentemente granitica e solida che abbiamo di noi stessi: la moglie sottolinea impietosamente un difetto del marito, il naso che sembra pendere a destra, particolare che Vitangelo non aveva mai notato. E il naso è solo l’inizio, perché il protagonista non si era mai accorto di possedere altri difetti che sua moglie, in modo incalzante, gli mette a nudo: le sopracciglia che assomigliano a due accenti circonflessi, le orecchie attaccate male, la difformità della gamba destra rispetto alla sinistra. Vitangelo rimane sconvolto da questa scoperta: l’immagine che la moglie si era fatta di lui non corrisponde a quella che egli si era fatta di se stesso.
Il tema chiave del romanzo
Dall’incipit si capisce benissimo che il tema chiave della vicenda sarà quello dell’identità.. Il male, come vedremo leggendo la trama e il finale, è la totale alienazione di sé, il non riconoscere il proprio corpo, le cose che più ci appartengono.

b)La conclusione del romanzo: la vita “non conclude” (un paradossale lieto fine)
l’abolizione della coscienza di sé e della propria identità: Moscarda ha provato a liberarsi della prigione della forma, ma non c’è riuscito. Ha dovuto prendere atto che i pregiudizi sono inamovibili e che ogni tentativo di darsi un’identità irrigidisce la persona in una sorta di maschera, di personaggio impedendogli di essere altro da quello che lo schema prevede, e dunque privandolo della vita stessa. Il nome, non a caso definito un’epigrafe funeraria e la forma che ci imprigiona in uno schema, “concludono”, nel senso che stabiliscono confini precisi e rigidi, annientando la vita che è flusso e movimento; allora, per vivere veramente, non bisogna concludere, rifiutare ogni forma e immergersi nel flusso indistinto della vita della natura (sono quest’albero, il libro che leggo ecc.). Moscarda «non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler essere più nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale, e dunque di fissarsi in qualsiasi forma parziale e convenzionale; egli accetta di sprofondare nel flusso mutevole e incostante della vita, identificandosi con le presenze esterne occasionali, senza poter dire più “io” » Il riscatto dall’inettitudine presuppone dunque come primo passo la negazione totale e consapevole della prigione dell’identità e delle forme.
 Il secondo è l’abbandono mistico al flusso della vita nella natura. Vitangelo rinuncia alla propria autocoscienza e alle convenzioni sociali del vivere, approdando a una soluzione utopica ma assurdamente positiva: lontano dalla città, simbolo dell’alienazione e dell’artificialità, annullare se stessi nel flusso vitale in una comunione profonda con la natura. La conclusione del romanzo vuole essere sotto questo aspetto positiva: c’è una conclusione che chiude a tutti gli effetti un percorso di riscatto o guarigione da una condizione di profondo disagio (che coincide con l’inettitudine legata al problema dell’identità) e di malessere, e che si risolve in una fuoriuscita dalla forma per entrare nella vita, dalla società per entrare nella natura.

2.La coscienza di Zeno (1923): oltre l’inetto verso l’uomo di massa del Novecento

Breve introduzione generale

a)     La trama del romanzo e la figura dell’inetto
Anche il protagonista della Coscienza di Zeno risponde sotto molti aspetti alla fisionomia dell’inetto, come si può appurare dalla lettura della trama.
Prefazione (capitolo I).
In poche righe il Dottor S., l'analista che ha preso in cura Zeno Cosini, spiega che ha deciso di pubblicare le memorie del suo paziente per vendetta, dato che quest'ultimo ha abbandonato la cura.
Preambolo (capitolo II).
È una sorta di introduzione in cui Zeno dichiara di aver deciso di scrivere dei quaderni autobiografici in vista della terapia.
Il fumo (capitolo III).
Illustra i numerosi tentativi da parte di Zeno di smettere di fumare. Fumatore accanito fin dall'adolescenza, Zeno ha tentato diverse volte di fumare «l'ultima sigaretta», fatto quest'ultimo che gli ha dato un ulteriore piacere e appagamento.
La morte di mio padre (capitolo IV).
Descrive il rapporto conflittuale con il padre, con particolare attenzione agli ultimi giorni di vita del genitore.
La storia del mio matrimonio (capitolo V).
Racconta la vicenda curiosa del matrimonio di Zeno. Dopo aver iniziato a frequentare le tre sorelle Malfenti, il protagonista si dichiara ad Ada, la primogenita, verso la quale nutre un sentimento sincero. Ella però lo rifiuta, per cui Zeno fa una nuova proposta ad Alberta che declina a sua volta. Egli finisce per sposare Augusta, la sorella che gli piace meno. In realtà la donna si rivelerà una moglie adorabile, capace di garantirgli una vita coniugale serena.
La moglie e l'amante (capitolo VI).
Convinto che il rapporto con la moglie possa essere rivitalizzato da una relazione adulterina, Zeno diviene l'amante di Carla, che gli rimane fedele per tutta la durata della relazione. Il rapporto matrimoniale e quello extraconiugale procedono di pari passo senza alcuna difficoltà, integrandosi alla perfezione.
Storia di un'associazione commerciale (capitolo VII).
Racconta dell'impresa commerciale stretta da Zeno con il cognato Guido, marito di Ada, nei confronti del quale il protagonista nutre antipatia e un desiderio di rivalsa.
Psicoanalisi (capitolo VIII).
Scritto dopo aver sospeso la terapia, in esso Zeno condanna senza appelli la psicanalisi che non gli ha arrecato alcun beneficio. Al termine del romanzo il protagonista si dichiara completamente sano.
La coscienza di Zeno come storia di una malattia
I capitoli più corposi della Coscienza, a eccezione dell'ultimo, che presenta un impianto diaristico, sono concepiti come memorie a tema sollecitate al protagonista sessantenne, Zeno Cosini, dal Dottor S. - un medico di scuola freudiana che l'ha preso in cura - come «un buon preludio alla psicoanalisi». Zeno raccoglie questo invito e, dopo aver letto un trattato di psicanalisi per capire meglio che cosa il Dottor S. si aspetti da lui, riempie una serie di quaderni, rievocando i propri trascorsi. Ne deriva un romanzo retrospettivo, in prima persona, nel quale la trama si frantuma in vari ricordi a tema, in sé conclusi benché collegati fra loro.
L’inettitudine come nevrosi (malattia): Zeno, un inetto “nevrotico”
La coscienza di Zenio non è, come potrebbe apparire a prima vista, un’autobiografia di Zeno, ma una storia della sua malattia. Tema della narrazione è infatti la malattia del protagonista-narratore, e non la sua vita. Dalla specificità del tema deriva l’organizzazione della materia narrativa: la vicenda non ripercorre le tappe della vita dell’uomo (infanzia, fanciullezza, ecc.), ma quelle della “malattia dell’anima”. La malattia in questione altri non è se non l’inettitudine che, diversamente dai personaggi fin qui considerati, assume le caratteristiche di una vera e propria nevrosi, vale a dire di una patologia di natura psicologica che ha manifestazioni diverse - dal senso di insoddisfazione costante, all’angoscia, alla paura incontrollabile, al conflitto costante con l’ambiente in cui il soggetto vive, ecc. – le cui cause risiedono in conflitti irrisolti e traumi avvenuti durante l’infanzia che hanno impedito la piena maturazione psicologica dell’individuo. In effetti, se ricostruiamo il profilo del protagonista, Zeno Cosini, dai dati fornitici dalla trama, ci accorgiamo che questo corrisponde ancora una volta a quello dell’inetto visto però sotto la lente della psicoanalisi freudiana[1].
La nevrosi che affligge Zeno viene rappresentata nella sua manifestazione più tipica: la dilazione, il continuo rimandare. Zeno si propone di liberarsi del vizio del fumo e dei suoi buoni propositi sono testimonianze le innumerevoli scritte “ultima sigaretta” che costellano il suo taccuino. In realtà proprio la dilazione permette a Zeno di assaporare meglio ogni volta l’ultima sigaretta.
L’inetto è in conflitto con la figura paterna o con una figura che incarna la maturità e l’autorevolezza dell’adulto; nel caso di Zeno tuttavia tale ostilità, che il personaggio si ostina a negare secondo il procedimento tipico della rimozione è, secondo le teorie di Freud (complesso di Edipo), all’origine della sua nevrosi. La sua insoddisfazione e la mancata maturazione psicologica derivano proprio dal conflitto irrisolto con il padre, conflitto che Zeno, obbedendo alla convenzione borghese che vuole che tra padre e figlio ci sia necessariamente amore e rispetto, ha sempre rimosso e nascosto. Emblematico l’episodio dello schiaffo paterno in punto di morte, un gesto del tutto involontario e incosciente, che Zeno, però, interpreta come l’estrema punizione che il padre ha voluto infliggergli. Ciò dimostra che il personaggio prova un senso di colpa giustificato dal fatto che effettivamente ha desiderato la morte del padre (pur continuando a negarlo a se stesso.
c) Anche il rapporto con le figure femminili è segnato dalla problematicità e da una sostanziale immaturità.

Nell’episodio tratto dal capitolo La storia del mio matrimonio, la prospettiva viene rovesciata e l’inettitudine acquista un valore positivo: abbiamo di fronte infatti uno Zeno cinquantasettenne che rilegge tutta la vicenda del suo matrimonio in retrospettiva. Tutto il passo è incentrato sulla dialettica tra la visione problematica dell’esistenza, propria di Zeno (malato di nevrosi) e quella ben più convenzionale e rassicurante della moglie come modello di salute perfetta, cioè di integrazione senza crepe negli schemi della vita borghese, nella legge e nell’ordine, che scandiscono e regolano la vita e che conferiscono sicurezza, solidità e fiducia incrollabile nelle certezze dell’esistenza (famiglia, religione, la vita scandita da ritmi e abitudini immutabili). L’esatto contrario della malattia che affligge Zeno, e cioè insoddisfazione, insofferenza per gli schemi della vita borghese, e al contempo senso profondo di inadeguatezza e di incapacità di tener fede al modello vincente, anch’esso tipicamente borghese, del patriarca e dell’uomo d’affari.
Dal punto di vista dello Zeno cinquantasettenne, se la salute significa adeguarsi al sistema, vivere in un presente amorfo, sempre uguale che dia l’illusione dell’eternità, senza scossoni, riponendo una fiducia cieca e acritica nelle autorità celesti e terrene, garanti dell’ordine e della serenità psicofisica, allora meglio la malattia, meglio vivere nell’inquietudine, nel dubbio, nell’incertezza. Così, paradossalmente, la malattia di Zeno, la sua inettitudine, da condizione negativa e frustrante, si trasforma in uno strumento acutissimo di conoscenza del reale.

Perché Zeno non può considerarsi a tutti gli effetti un inetto ma prefigura un uomo nuovo?  a) la condizione di inetto non è più frustrante e statica, ma è vista sotto una luce positiva: messe da parte le aspirazioni di stampo romantico (affermazione di sé, libertà dalle convenzioni sociali, autodeterminazione), Zeno ha preso coscienza della propria fragilità e si è deciso a utilizzare la propria debolezza esistenziale per ottenere il massimo successo possibile, come dimostra la posizione gratificante di imprenditore di successo che riesce a conseguire a prescindere da meriti effettivi, guidato più dal caso, dalle situazioni favorevoli che dalle proprie capacità e volontà; In tal senso, secondo l’interpretazione di Cataldi, egli rappresenta l’uomo nuovo novecentesco, l’uomo-massa, disposto a rinunciare ai grandi valori romantico-risorgimentali in nome di una propria felicità personale.

b)     L’inettitudine e la malattia come condizione universale
il finale de La coscienza di Zeno assume una prospettiva universale costituisce una meditazione sulla “malattia dell’uomo”. Chi parla – e sta qui il paradosso – è uno Zeno che, in polemica con il dottor S., annuncia la propria guarigione, dichiarando cioè di aver trovato la soluzione definitiva ai propri mali psichici. Egli attribuisce tutto ciò al successo negli affari (“fu il mio commercio che mi guarì”), ottenuto attraverso una serie di speculazioni finanziarie con le quali ha approfittato, senza alcuno scrupolo morale, della crisi economica causata dalla guerra. In realtà la sua guarigione altri non è che una felice integrazione nel mondo borghese: Zeno è guarito perché si è pienamente inserito in un mondo che, pur credendosi sano, è in realtà radicalmente malato, come dimostra la tragedia della guerra, oggetto della riflessione finale dell’ultima sequenza che estende la malattia a tutta l'umanità, perché essa dipende, in ultima analisi, dalla malattia congenita alla civiltà del falso progresso.
La malattia è da lui identificata con la vita stessa, ma in particolare con la «vita attuale», che è «inquinata alle radici». L'uomo, con l'espansione delle città, ha occupato gli spazi che erano della natura, degli animali e delle piante, e ha inquinato l'aria con i suoi fumi.  Il progresso senza fine è in realtà solo degenerazione e malattia.
 Solo l’autodistruzione riporterà la Terra alla purezza originaria (la salute) e alla purificazione dalla malattia.. Questa visione apocalittica è certo suggestionata dallo sviluppo della civiltà delle macchine, che proprio nei primi decenni del Novecento tocca il culmine, generando diffidenza e paura nell'uomo, che si sente minacciato e oppresso dal suo incombere. La conclusione del romanzo assume un'inquietante valenza profetica e presenta forti tratti di attualità, per noi che abbiamo conosciuto il potenziale distruttivo degli armamenti militari del XX secolo e l'incubo delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e su cui, dopo Cernobyl e Fukushima, pende ancora la minaccia di tante centrali nucleari sparse per il mondo.

3.Le innovazioni formali
Per quel che riguarda Uno nessuno centomila  è una sorta di monologo che presuppone il richiamo frequente a un interlocutore immaginario, come prova la frequenza di interiezioni e di espressioni con funzione fatica. Il romanzo manifesta inoltre l’impostazione di un romanzo-saggio o a tesi. In conclusione, Pirandello porta alle estreme conseguenze la sua opera di destrutturazione delle forme narrative tradizionali..

            Per quel che riguarda La coscienza di Zeno le novità formali sono due:
a) l’articolazione  tematica e la concezione del tempo; l’articolazione per temi, Nella Coscienza la linearità viene meno e ad essa subentra una concezione del tempo che risente notevolmente delle teorie filosofiche e scientifiche del primo Novecento sulla dimensione spazio-temporale, in particolare di Bergson e indirettamente di Einstein. Il tempo del racconto di Svevo è il tempo interiore di quella “coscienza” problematica e contraddittoria che è – fatto per nulla trascurabile – la vera protagonista della “storia” come attesta il titolo (La coscienza di Zeno) in maniera inequivocabile: in quanto tale, si tratta di un tempo soggettivo che è stato definito impuro e misto, perché la narrazione mescola piani temporali diversi: il presente dell’io narrante (lo Zeno sessantenne che, su consiglio del dottor S., scrive il suo memoriale) e il passato dell’io narrato (il protagonista stesso dall’infanzia all’età adulta) si intersecano continuamente, risultando uniti nel concetto di “durata” definita dal filosofo H. Bergson: la coscienza non segue i ritmi temporali misurati delle scienze esatte (o il tempo oggettivo della narrazione tradizionale), ma la propria dimensione temporale, che in un’inarrestabile continuità (la durata) rievoca il passato e lo fa rivivere alla luce del presente.
L’altra novità è l’inattendibilità della voce narrante: a differenza di quanto accade in una vera autobiografia, l’io narrante, pur alla luce dell’esperienza maturata, non è superiore all’io narrato, cioè sia in grado di giudicare e interpretare con certezza il proprio passato, di spiegare, sempre alla luce della propria esperienza, le cause dei propri comportamenti in determinate situazioni della vita. Ne La coscienza di Zeno infatti il lettore ha a che fare con una coscienza “malata”, la cui psicologia non è univoca e razionalmente decifrabile, ma frantumata, fino alla perdita di ogni certezza. Ciò vuol dire che nel ripercorrere a ritroso i momenti chiave della sua vita procedendo per temi (non cronologicamente), l’io narrante Zeno (Zeno a 57 anni), pur istituzionalmente superiore all’io narrato (per es. lo Zeno giovane che non è capace di rinunciare al vizio del fumo, oppure lo Zeno maturo che corteggia insistentemente le due sorelle Malfenti per poi sposare la terza, la meno avvenente Augusta ecc.), manca di qualsiasi criterio per giudicare il proprio passato: a differenza del narratore ottocentesco, granitico e imperturbabile nelle sue certezze, il narratore della Coscienza è incerto, esitante, insicuro: egli “pensa”, immagina, avanza ipotesi, ma non ha mai in mano la chiave per interpretare in maniera univoca il proprio vissuto


[1] Ed è questa la grande novità del terzo romanzo di Svevo che, pur non avendo alcuna fiducia nel potere terapeutico della psicanalisi, la ritiene molto efficace in campo letterario per le possibilità che apre nella comprensione dei meccanismi che regolano il comportamento dell’individuo.



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