Pascoli
e la lingua
Pasolini, Leonetti,
Roversi fondarono la rivista “Officina” a Bologna, nel 1955. Sul primo
numero della rivista, Pasolini scrisse un saggio su Pascoli, intitolato appunto
Pascoli, in occasione
del centenario della nascita del poeta (ma è anche da ricordare che la tesi
di laurea di Pasolini era appunto uno studio sulle poesie pascoliane).
Questo articolo non era solo di commemorazione né si tratta di un semplice
bilancio. Nell’esordio vi è concentrata la mission della
rivista:
“Si consideri intanto la stupenda possibilità
di “descrizione” che presenta il fenomeno stilistico pascoliano (…):
“descrizione” anzitutto oggettiva, da laboratorio (se impostata secondo il
folgorante schema del Contini, sia pure volgarizzato, delle due categorie letterarie
del “monolinguismo” – petrarchistico – e del “plurilinguismo”) ma poi, per una
sua intima forza paradigmatica, soggettiva e di tendenza. E ciò nel senso che
vi si può fondare una revisione di tutta l’istituzione stilistica novecentesca
(da farsi appunto in gran parte risalire alla ricerca pascoliana)”. (Pier Paolo Pasolini, Pascoli, in ID., Passione
e ideologia, p. 291, Milano, Garzanti)
Monolinguismo e
plurilinguismo.
Le due categorie, come
scrive Pasolini, sono proposte da Contini in un intervento orale poi stampato
nella raccolta di scritti Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, pp. 169-192.
Il testo continiano è
celebre per la proposta di una dualità, il Dante della Commedia e il Petrarca del Canzoniere,
dualità recepibile, in generale, come differenza letteraria, ma che, se
considerata a partire dall’ammissione di Petrarca di non aver letto la Commedia
(ammissione, reale o simulata, documentata in una famosa lettera a
Boccaccio), può addirittura presentarsi come opposizione contrastiva.
Installate nell’instabile percorso che va dal latino al volgare, Commedia e Canzoniere non sono solo due momenti differenti
nello stesso percorso, ma, considerate a posteriori, diventano, formalmente e
in potenza, due distanti modelli letterari e stilistici: il “plurilinguismo” a
partire dalla Commedia, il “monolinguismo” a partire
dal Canzoniere.
Plurilinguismo.
“Dei più visibili e
sommari attributi che pertengono a Dante, il primo è il plurilinguismo”. Contini distingue innanzitutto una poliglottia degli
stili e una dei generi letterari. Riguardo alla pluralità di stili individua
innanzitutto una pluralità di toni e di strati lessicali, dal sublime al
grottesco al linguaggio qualunque, quindi la sperimentazione incessante.
Ulteriore punto è l’interesse teoretico e metalinguistico, di un Dante sempre
interessato alle questioni linguistiche.
“Plurilinguismo”, dunque, non equivale a
sperimentazione, ma include una certa tipologia di sperimentazioni: nel caso di
Dante, Contini propone come esempi la compresenza di toni differenti sul piano
del comico, e un certo “realismo”. Sperimentazione, dunque, non è pratica che
appartiene al solo “plurilinguismo”, ma vi è inclusa in quanto sperimentazione
incessante, ripetuta, violenta. Tali accezioni chiariscono evidentemente poco
la sostanza di tali sperimentazioni, sostanza che – sostanza dell’espressione e
sostanza del contenuto – va analizzata nella materia letteraria. Di che modo
sono queste sperimentazioni? Cercheremo di vederlo meglio nel caso di Pascoli.
Monolinguismo.
Passando a Petrarca,
Contini parla di “unilinguismo” (che corrisponde a “monolinguismo”) o
“bilinguismo” fatto di due varianti, e due varianti fatte di diverse modalità,
che tendono a un assoluto stilistico. Tale assoluto stilistico è a sua volta
un’idea, un modello: per es., in latino, il modello di Cicerone, modello che va
imitato a perfezione – modello, cioè, di cui essere perfetta immagine – come
nella tripartizione gerarchica degli stili; ma anche il modello di Virgilio e
quello di Livio. In questa struttura arborescente “…è certa l’unità di tono e di lessico, in particolare, benché non
esclusivamente, nel volgare”. (p.
174)
Quale posizione occupa
il volgare in questa struttura? Contini è subito molto chiaro su questo punto:
“il latino è la lingua normale della
comunicazione. (…) È chiaro che il volgare non è passibile di usi pratici. (…)
E l’episodio di Petrarca che volge in latino la novella boccaccesca della
Griselda non ha bisogno di commento”. (p. 173)
La sperimentazione
petrarchesca avviene entro precisi limiti di genere, collocandosi anche
distintamente tra differenze minime di generi, e ogni mutamento di stile deve
compiersi entro un genere determinato. Ecco un es. proposto da Contini di
variazioni di stile nel genere della canzone: in Chiare,
fresche et dolci acque la
coniugazione di “stilemi già notomizzati” con la sequenza di aggettivi (aere, sacro,sereno)
oppure di coppie ordinate (herba et fior’
che la gonna…; torni la fera bella et mansueta).
Per costruire un classico, o un genere, dunque, non serve
una norma precedente, basta procedere per riduzione, per negazione, o, come
scrive felicemente Contini quasi alla fine, con un’attività di drenaggio
(p. 191). L’ideale classico di equilibrio e la codificazione di genere sono il
risultato di operazioni di drenaggio della complessità plurilinguistica, di pulizia
della materia letteraria, di riduzione degli elementi a disposizione e dei
precedenti della tradizione, di negazione di tutto ciò che eccede questi
limiti: costruire le condizioni di possibilità a partire dalle quali è solo
giustificata la sperimentazione. Nella struttura arborescente di Petrarca, i
classici come modelli ideali e i generi stilistici sono come Giganti che vivono
su isole fuori del mondo.
Pascoli e il plurilinguismo sempre per CONTINI
In Pascoli non agisce
un diniego della tradizione letteraria, piuttosto un recupero di materiali
scartati, da ricombinare sul piano dell’espressione e sul piano del contenuto.
Di che fenomeno si tratta, in che modo Pascoli “costituisce una serie di
eccezioni alla norma”? Dice CONTINI:
“se si tratta di linguaggio
fono-simbolico, per esempio di onomatopee, abbiamo a che fare con un linguaggio pre-grammaticale. Ma ci sono eccezioni
alla norma che, se così posso dire, si svolgono durante la grammatica, vale a dire sono esposte in una lingua
provvista d’una struttura grammaticale parallela a quella della nostra, in un
altro linguaggio; e ci sono eccezioni le quali si situano addirittura dopo la grammatica, perché, quando Pascoli estende il limite dell’italiano
aggregando lingue speciali, annettendo poi quelle lingue specialissime che sono
intessute di nomi propri, realmente ci troviamo in un luogo post-grammaticale. (p. 224)
Consideriamo più
attentamente ogni singolo movimento.
Linguaggio pre-grammaticale.
Linguaggio
fono-simbolico, per es. le onomatopee: Tornano quindi ai campi, a seminare / veccia e
saggina coi villani scalzi, / e – videvitt – venuta d’oltremare…; l’operazione va considerata in
stretta relazione con i valori semantici in gioco nel componimento. Di esempi
nelle poesie di Pascoli ve ne sono molteplici, come il ritornello chiù e il sentivo un fru fru tra le fratte ne L’assiuolo.
Il verso proposto all’inizio di questo
paragrafo è preceduto qualche strofa più indietro da v’è
di voi chi vide… vide… videvitt?. O, ancora, nel Fringuello
cieco: “Finch… finché non vedo, non credo” / (…) / “Anch’io
anch’io chio chio chio chio…”. Ancora, termini dotati di valore
semantico registrato nei dizionari, vengono desemanticizzati, utilizzati con
una funzione puramente evocativa a partire dalla loro massa fonica: per es. ne L’amorosa
giornata: E le rondini zillano alle gronde / di qua, di là,
vertiginosamente, dove “vertiginosamente”, collegato all’evocatore
“zillano”, passa oltre la sua portata semantica investito in pieno di
valorizzazione fonosimbolica.
Vi è un movimento di desemantizzazione
della parola, o di trascinamento alla deriva della configurazione
semantica del verso, o un movimento di ricostruzione del termine, si assiste al
superamento della barriera che separa la finitezza o compostezza grammaticale
del verso dall’evocazione musicale condotta direttamente a livello di
linguaggio.
Non si può certo dire
che tutto ciò sia una vera novità nel mondo della letteratura e della poesia.
Onomatopee e fonosimbolismi sono in uso specie presso le avanguardie storiche.
Ma ciò che sembra interessante in Pascoli è la possibilità di sintesi tra
livello pre-grammaticale e livello post-grammaticale del linguaggio.
Vediamo in che modo.
Linguaggio post-grammaticale.
Contini afferma che, a
questo livello, Pascoli è in sintonia con la cultura del suo tempo: “del linguaggio speciale e del linguaggio
post-grammaticale tutto il tardo romanticismo, tutto quello che da qualche
tempo si suol chiamare il decadentismo, ha fatto uso assai copioso, basti
citare D’Annunzio e l’intero movimento simbolistico.” (p. 224)
Con linguaggio
post-grammaticale si definisce quell’elemento risaputo della poetica
pascoliana, la nominazione determinata delle cose. Si tratta comunque di
un procedimento che non può essere così facilmente associato a quelli sopra
citati.. A riguardo, si possono mettere insieme due brani tratti da due
discorsi di Pascoli: il primo è tratto da un discorso del 1896, il secondo è un
celebre passo del Fanciullino. Ciascuno dei due brani
dovrebbe rispondere alle due seguenti domande: il primo brano alla domanda “che
cos’è questa esattezza nomenclatoria?”; il secondo brano alla domanda
“in che modo bisogna intenderla?”. Leggiamo i due brani:
“E io sentiva che, in
poesia così nuova, il Poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune della
poesia italiana anteriore a lui: l’errore dell’indeterminatezza, per la quale,
a modo di esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di
alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti
con quello di uccelli. Errore d’indeterminatezza che si alterna con l’altro del
falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose
o viole (…), tutti gli uccelli a usignuolo”. (Pascoli su Leopardi)
La determinatezza,
l’esattezza nomenclatoria, si oppone all’indeterminatezza di parola. Vi sono due specie di
indeterminatezza: l’una nomina il genere per la specie o l’individuo; l’altra
nomina una specie per tutte le altre specie appartenenti a un genere. Entrambe
sono classificabili come sineddoche. A queste, Pascoli oppone l’appropriatezza
del nome (in questo senso si può parlare di nomi propri). Il che conduce
a un punto importante, per definire il quale conviene citare il secondo brano:
Direte voi che il
sentimento poetico abbondi più in chi, torcendo o alzando gli occhi dalla
realtà presente, trovi solo belli e degni del suo canto i fiori delle agavi
americane, o in chi ammiri e faccia ammirare anche le minime nappine, color gridellino,
della pimpinella, sul greppo in cui siede? (p. 235 del saggio di Contini)
L’appropriatezza dei
nomi e la determinatezza delle cose permette di operare delle distinzioni molto
importanti: vi sono le agavi americane, che rimanda a un mondo aulico, illustre
e lusinghiero, e le pimpinelle di un ambiente più quotidiano e basso, meno
elevato del precedente. Entrambe hanno diritto di cittadinanza nella poesia:
non solo le prime, che rimandano a un mondo al di sopra della linea umana, ma
anche le seconde, che rimandano a un mondo al di sotto della linea umana. È
questa la “rivoluzione romantica” di Pascoli: non ci sono oggetti privilegiati.
“Caratteristico della
poesia classica [ma si dovrebbe dire
classicista] è di redigere un catalogo chiuso di oggetti
selezionati, proprio come in certi circoli aristocratici occorrono determinate
presentazioni e si esigono requisiti particolari per essere ammessi” (Contini)
Al contrario, in
Pascoli opera una vera e propria democrazia poetica. Già Contini sembra
collegare ciò alla posizione umanitarista, o meglio del socialismo umanitario,
del poeta.
Più esplicito ancora, Edoardo Sanguineti, qualche anno
dopo, in un saggio del 1962 Attraverso i
Poemetti pascoliani (in Pasolini, Ideologia e linguaggio, pp. 11-34):
“L’operazione
stilistica compiuta dal Pascoli svela tutto il suo significato, mi pare,
soltanto se spiegata appunto come un tentativo, coraggioso quanto disperato,
rigoroso quanto patetico, di “abolire la lotta di classe” anche sopra il
terreno, precisamente, dello stile: un tentativo di abolire la lotta tra le
classi delle parole, non meno che tra le classi degli uomini, trovando un
pacifico punto di equidistanza tra “agavi” e “pimpinelle” (…).
Tale abolizione
avviene secondo il progetto di un socialismo umanitario, in cui ciascuna cosa,
comprese le “cose umili”, può guadagnare il proprio posto, accanto alle altre
cose, senza più sovrapposizioni.
Due sono le critiche
che si possono muovere all’interpretazione sanguinetiana: innanzitutto un
appiattimento del piano dell’espressione e del piano del contenuto su un
livello di connotazione inventato dal critico letterario, attribuito all’ultimo
Pascoli – il “poeta nazionale” – e fatto retroagire su tutta l’opera del poeta.
In secondo luogo una pressoché totale cancellazione del problema del
plurilinguismo.
Al contrario, se si prosegue con l’articolo di
Contini, si giunge a un punto interessante. Dopo aver parlato del Pascoli delle
cose umili e della determinatezza, Contini segnala che tale questione non può
concludersi qui, perché ancora non si è analizzato il modo in cui il modo
post-grammaticale agisce sul piano del linguaggio. Isolare il problema e
risolverlo nei termini del socialismo umanitario del poeta – che è operazione
compiuta da Sanguineti – significa annullare alcuni elementi importantissimi.
“Qui sopra un fondo di
bruma o di fumo vedete emergere dei primi piani, precisamente dei primi piani
in senso cinematografico, una siepe, una mura (…). Ma dei primi piani non si
giustificano se non in rapporto a un fondo, a un orizzonte, il quale esso è
indeterminato” (…). (p. 240)
La determinatezza
delle cose non vale di per sé entro un rapporto di connotazione con la visione
del mondo del poeta, ma è dinamizzata: la determinatezza emerge da un fondo di
indeterminazione. Per comprendere questo rapporto, Contini propone una
riflessione su due celebri liriche, L’assiuolo e Il gelsomino notturno:
Entrambe offrono primi
piani di oggetti evidenti quali “il mandorlo e il melo”, oggetti che si fanno
ancor più flagranti, quasi configurando quello che certi poeti americani
chiamano il “correlativo oggettivo”, nel Gelsomino notturno: il tutto su un fondo diffuso, fondo diciamo dell’“alba di perla”, del
“nero di nubi”, che è invece molto più esposto e confesso nell’Assiuolo. (p.
241)
Nero di nubi e non “nubi nere”, alba
di perla e non alba
perlacea: vi è sostantivazione dell’aggettivo, ovvero della qualità, e la
qualità diventa l’elemento fondamentale dell’espressione. Tutto ciò segnala una
dinamica di emersione dal fondo diffuso, o fondo di indeterminazione, di
determinatezze. A questo procedimento partecipa anche il linguaggio
pre-grammaticale: sempre nell’Assiuolo,
il verso sentivo un fru fru tra le fratte è in parallelo con sentivo
il cullare del mare e
con sentivo nel cuore un sussulto;
una indeterminazione fonosimbolica emerge dal fondo diffuso assieme a cose
significate per mezzo di vocaboli, il valore semantico dei quali è
registrato nei dizionari, ma che nella composizione si danno in quanto
semanticamente instabili.
Ecco come il
linguaggio post-grammaticale giunge a connettersi al linguaggio
pre-grammaticale, essendo entrambi definiti per mezzo di elementi particolari.
Tali elementi non fanno parte di un dizionario di stile o di un dizionario di
temi, ma di due enciclopedie, allo stesso modo in cui in Dante si individuavano
un’enciclopedia stilistica e una dottrinale:
“Pascoli li ha fusi o
li ha giustapposti nella sua pagina con un’intenzione estremamente definita,
che è quella precisamente di costituire quasi una sorta di enciclopedia tonale
da rompere la prigionia del tono, del genere, dell’arte determinata”
Variazioni “durante” la grammatica.
Linguaggio
pre-grammaticale come desemantizzazione di termini registrati nel dizionario o
come movimento alla deriva degli stessi, uso semantico di interiezioni e di
onomatopee o risemantizzazione di termini resi indefiniti. Linguaggio
post-grammaticale come nominazione appropriata di tutte le cose
determinabililinguaggio pre-grammaticale e linguaggio post-grammaticale sono
strettamente correlati: per es., ne L’amorosa
giornata, e le rondini zillano alle gronde / di qua, di là,
vertiginosamente: nominazione delle cose – le “rondini” – che
rinvia a elemento fonosimbolico – “zillano” – quale grado di determinazione del
suono delle rondini, e “vertiginosamente” qui desemantizzato rispetto alla sua
definizione da dizionario.
Giungiamo così a una
domanda importante: finora si è quasi sempre parlato di animali e vegetali; ma
che ne è del linguaggio umano?
Premetto alla risposta
la citazione per intero dei versi di Italy rubricati da Contini:
Venne, sapendo della
lor venuta, / gente, e qualcosa rispondeva a tutti /Ioe, grave: “Oh yes, è fiero… vi saluta… // molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti- / stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima… / Conta moneta: può
campar coi frutti… // Il baschetto non rende come prima… /Yes, un salone, che ci ha tanti bordi… / Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima…”. (p. 221)
Contini propone un
vario elenco di “campioni di lingue speciali” che mappa come colori:
·
Colore locale: questo in modo particolarissimo nelle poesie ispirate
alla vita di Castelvecchio e sature di termini garfagnini.
·
Colore temporale: quando per esempio il Pascoli vuole alludere al tono
presunto nella poesia volgare ai tempi di re Enzo, (…) ricorre a elementi
linguistici che (…) associano echi bolognesi, emiliani, padani, a echi arcaici,
duecenteschi.
·
Multicolore locale (che è il caso dell’estratto da Italy): vedete
l’emigrante che, tornando in Lucchesia dagli Stati Uniti, parla un linguaggio
impastato di italiano e di americano, in cui il toscano incastona o, più
spesso, assorbe, adattati alla sua fonetica e forniti in connessioni mnemoniche
in tutto nuove, i vocaboli stranieri.
·
Colore locale occasionale: per esempio innanzi a una situazione della guerra
d’Abissinia evocherà termini specifici, etiopici, molti dei quali sono nomi
propri e perciò risultano doppiamente estranei al linguaggio quotidiano.
Ogni colore di lingua
speciale rimanda a variazioni sulla lingua normale
Contini si concentra
sulla sensibilità linguistica di Pascoli. A proposito, cita un discorso tenuto
dal poeta nel 1898: “la natura va dal
semplice al composto, dall’omogeneo all’eterogeneo, e non viceversa; e le
lingue e i dialetti moltiplicheranno sempre d’anno in anno e di secolo in
secolo”
Vi è una certa
ossessione in Pascoli – nota Contini – che non è solo ossessione per il
linguaggio ma più propriamente ossessione per il problema della morte delle
parole. Contro l’angoscia della morte delle parole, per ridestare le parole
dal cimitero linguistico, ogni esperienza linguistica deve essere ammessa, ogni
lingua speciale e specialissima – ogni, cioè, “colore” – deve poter vivere e
vivificare. Ecco il principio vitale del plurilinguismo: fare esperienze ed
esperimenti per ricombinazione dei piani dell’espressione e del contenuto di
ogni possibile lingua. Non importa se tali lingue siano registrate: questa è
una preoccupazione da redattori di dizionari; viceversa, alle lingue deve
essere permesso di vivere e di vivificare,
Si capisce, infine,
perché la domanda che si pone Pascoli non è “come formare una lingua nuova?” –
o neo-lingua, preoccupazione delle avanguardie – e nemmeno “come riformare una
lingua antica?” – preoccupazione dei classicisti – bensì “come far convivere le
lingue e come far vivere lingue morte?”. È ora chiaro che una “lingua
morta” può anche essere una lingua di cui sentire la nostalgia, o meglio una
variante di tale lingua tutta da far rivivere: la
naiv, dadora, flocca flocca flocca… Sembrerebbe solo un giochetto, e
invece non è così: tocchiamo, con questo verso, un problema molto importante,
di cui Pasolini era lucidamente consapevole.
Pascoli. Per una
lingua minore.
Nel bel mezzo delle
considerazioni sopra esposte, tra l’ammissione di ogni esperienza linguistica
(p. 237) e la poetica immanente delle variazioni “durante” la grammatica (p.
238), Contini accenna a Pasolini e al gruppo di letterati che promuovono
esperimenti linguistici sulla linea pascoliana. Il che ci permette di tornare,
esattamente da questo punto, all’articolo pasoliniano per “Officina” da cui
siamo partiti.
Nell’articolo dedicato
a Pascoli, Pasolini sottolinea un’apparente contraddizione nel poeta:
una ossessione tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico
a se stesso, immobile, monotono e spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e
a rinnovarlo incessantemente. (Pasolini, Pascoli,
p. 294)
Si tratta,
evidentemente, di un profilo psicologico. Pasolini sembra distinguere
l’interesse verso lo sperimentalismo dall’altro versante, quello
dell’ossessione psicologica. Questa ossessione, in Pascoli, prevale sulle
sperimentazioni. Non c’è, insomma, secondo Pasolini, una visione del mondo
nuova e radicale.
Il “sogno” di Pascoli.
Scrive
Pasolini: “il grande desiderio irrealizzato del Pascoli era di “evadere”
compiutamente, dalla lingua maggiore da lui già ridotta a minore, verso il
dialetto. Il “sogno” di Pascoli è costruirsi una linea di fuga verso il
dialetto come compimento dell’operazione di riduzione a minore della lingua
maggiore: costruire una linea di fuga dalla lingua nazionale a una “lingua
fraterna”.
La lingua maggiore, in
effetti, era già stata ridotta dal Pascoli (…): era già stata abbassata di tono
fin quasi a raggiungere il parlato come recente koiné nazionale, o addirittura come dialetto. (…)
Tuttavia l’operazione
pascoliana non è così radicale. Sia Contini che Pasolini segnalano in Pascoli
una continua tensione tra polo romantico (quello espressivo e sperimentale) e
polo classicista (quello legato alla tradizione). Ma Pascoli non si identifica
con la tradizione letteraria, la rinnova, la dinamizza.
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