Da un saggio (qui ridotto) di E. Mazzoleni:
"C'è
un quadro di Klee che s'intitola 'Angelus Novus'. Vi si trova un angelo che
sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli
occhi spalancati, al bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve
avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena
di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su
rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i
morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è
impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle,
mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo
il progresso, è questa tempesta. "
(W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia)
È con la raccolta poetica Antiquités
de Rome (1558) di
Joachim du Bellay che le rovine entrano a far parte del panorama
culturale europeo. Dall’ammirazione per la grandezza dell’impero romano e dal
sentimento di melanconia per la sua caduta nasce e si sviluppa una meditazione
sulle rovine che mette in luce la fragilità dei destini umani. L’immaginario
seicentesco e settecentesco inscrive più precisamente le rovine nei termini di
una riflessione di carattere morale. (…)Che si tratti delle rovine di una
Versailles futura o delle vestigia di una civiltà passata, l’ammonimento
sulla vanità delle azioni umane resta sempre centrale.
«Confesso che sulle
prime ho provato soltanto ammirazione al cospetto delle Piramidi. Sono
consapevole che la filosofia potrebbe sorridere all’idea che il più grande
monumento costruito dall’uomo sia una tomba. Ma perché vedere nella Piramide di
Cheope soltanto un ammasso di pietre con uno scheletro? Non è per la
consapevolezza della sua vanità che l’uomo ha costruito questo sepolcro, è
invece per il suo istinto d’immortalità: questa tomba non è tanto il limite che
annuncia la fine di una carriera durata un giorno, quanto la soglia che
determina l’entrata in una vita senza fine. È una specie di porta eterna
costruita sui confini dell’eternità». (Chateaubriand 1811: 469)
Tuttavia, nel Settecento
matura un nuovo modo di guardare le rovine che, prendendo le distanze dalla
riflessione precedente, le confronta con una nuova sensibilità, quella più
vasta del pittoresco, nata dalla pratica, sempre più diffusa nelle élites,
del Grand Tour. L’Italia e le sue vestigia antiche sono
naturalmente la meta principale di questi viaggi che contribuiranno alla
formazione di uno sguardo estetico nuovo. Intorno agli anni Novanta, muovendo, in
primis, dall’opera di William Hogarth The
Analysis of Beauty (1753)
dedicata all’analisi della linea della bellezza (Line of Beauty o
linea serpentina) come sintesi di varietà e di movimento; dal concetto di
sublime proposto da Edmund Burke in A Philosophical Enquiry into the Origin of the
Sublime and Beautiful (1757)
e infine dalle considerazioni di Thomas Whately contenute in Observations
on Modern Gardening (1770),
William Gilpin teorizza un concetto fondamentale per la percezione moderna del
paesaggio: il pittoresco. Questo principio estetico, fondato
sull’irregolarità e la varietà, fa costantemente appello allo spettatore
tramite le emozioni suscitate dalle rovine. L’evoluzione di questa tendenza
si manifesta eminentemente nell’arte dei giardini, dove la natura diventa
“paesaggio”, un luogo deputato a suscitare le emozioni.
Il maggior interprete e
promotore di questa sensibilità è Denis Diderot, che, nel Salon del1767, presenta
il paesaggio con rovine secondo un punto di vista non più eminentemente morale,
ma più propriamente estetico. Le rovine non rimandano più esclusivamente
ai fasti di un passato perduto, ma si rivolgono all’uomo offrendosi come la
proiezione del suo destino:
«L’effetto di queste
composizioni, buone o cattive che siano, è di lasciarvi in uno stato di dolce
melanconia. Portiamo il nostro sguardo sui frammenti di un arco di trionfo, di
un portico, di una piramide, di un tempio, di un palazzo e ritorniamo comunque
sempre a noi stessi. Anticipiamo il flusso del tempo, e la nostra immaginazione
si disperde sulla terra e sugli edifici stessi che abitiamo. Di colpo, la
solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Siamo soli, orfani di tutta una
generazione che non c’è più. Questo è il primo verso della poetica delle rovine».
(Diderot 1767: 335)
In questa prospettiva,
le rovine non sono più considerate come ciò che è sopravvissuto di un’opera
originaria, al contrario cominciano a essere percepite nella loro autonomia
come il risultato del trascorrere del tempo, ciò che le assimila alla natura.
Nel conciliare la caducità della natura e la tensione verso l’Infinito
dell’arte, la rovina si offre come una forma nuova, differenziata
rispetto all’universo circostante. Testimonianza del tempo passato, non può più
essere riconosciuta come un “frammento” architettonico ma come sopravvivenza
all’oblio quindi anche come specchio della fragilità umana. Da qui, un
approccio estetizzante ma anche un’idea d’identificazione da parte dell’uomo
nella natura che riflette l’interiorità dello sguardo. L’immaginario di fine Settecento
consegna, infatti, una certa rappresentazione delle rovine che, rivisitate
nella prospettiva di un rispecchiamento dell’animo umano, le identifica
come “paesaggio”, frutto delle interrelazioni tra uomo e natura. A questo
punto, il paesaggio non può che essere “affettivo” poiché
accoglie e trasmette una certa sensibilità legata alla malinconia. In Études
de la nature (1784)
Bernardin de Saint-Pierre è tra i primi a mettere in luce l’associazione tra
melanconia e rovine: “Le rovine, dove la natura combatte contro l’arte
dell’uomo, ispirano un sentimento di dolce melanconia” (Bernardin de
Saint-Pierre 1784: 220). Non casualmente, negli stessi anni è anche coniato il
termine “nostalgia” che, dal greco νoστος (ritorno) aλγος (dolore), rinvia all’idea di un
viaggio nel dolore, di un ritorno verso l’origine perduta. Fondata sulla
dialettica tra presenza e assenza, la poetica delle rovine non può che
comunicare la perdita e, conseguentemente, trovarsi al centro di un paesaggio
malinconico: “fantasticare sulle rovine significa sentire che la nostra
esistenza non ci appartiene e che raggiunge l’immensità dell’oblio”
(Starobinski 1964: 180). Diderot conferma queste considerazioni quando evoca le
rovine come espressione dell’aspirazione umana all’eternità:
«Le idee che le rovine
risvegliano in me sono grandiose. Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo
resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità.
Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano, mi annunciano la fine, e mi
mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende. Cos’è la mia esistenza
effimera in comparazione a quella di una roccia che sprofonda nella terra o a
quella di una valle che si frantuma o ancora a quella di questa foresta che
cambia come queste masse che, sospese sopra la mia testa, si muovono? […] Un
torrente conduce le nazioni, una sopra l’altra, verso una vertigine comune; io
voglio restare sul bordo e fermare l’onda che scorre al mio fianco!» (Diderot
1767: 338)
«Perché un bello schizzo ci affascina più di un
quadro compiuto? È che ha più vita, e meno forme. Quando s’introducono le
forme, la vita viene meno» (Diderot 1767: 335).
(…) René de
Chateaubriand arriverà, in particolare nei Mémoires d’Outre-tombe (1849-50), a riconoscersi nelle
rovine. Mentre evoca il passato, l’autore definisce se stesso come
«un edificio
caduto […] un palazzo crollato e ricostruito con delle rovine» (Chateaubriand
1849-50: 302)
Del resto, nel 1802, con
il Génie du Christianisme,Chateaubriand aveva inaugurato la
coscienza romantica nel segno dell’assenza, istituendo per la prima volta
un profondo legame tra le rovine, la religione cristiana e l’identità
nazionale.
Questo immaginario
nostalgico, completamente ipotecato al trascorrere del tempo, si riconosce
nell’abbraccio tra rovina e natura, una sorta di “paesaggio-palinsesto”
in grado di mettere in scena il cortocircuito tra presente e passato,
l’impossibilità di congedarsi con la memoria.
Se la natura disperde le
opere dell’uomo, cancellando le sue tracce, il castello, invece, custodisce la
memoria. Nel contrasto tra la natura e la rovina, questo paesaggio comunica il
desiderio d’eternità dell’uomo. Tra gli eredi più rappresentativi di questo immaginario
vi è il racconto di Edgar Allan Poe, The Fall of the House of Usher(1839).
Qui le rovine ricoperte di funghi e di muschi sono l’immagine della maledizione
della casa e delle colpe dei suoi inquilini. In particolare è nel paesaggio
notturno che s’inscrivono i desideri e i tormenti dei personaggi. Non
casualmente, mentre il protagonista fugge dal castello, si staglia nel cielo
notturno una luna rossa che, risplendendo attraverso una fenditura simile a una
ferita nel muro, rivela il destino dello sventurato.
Il castello, nel suo
stato di precarietà e pervaso dalla vegetazione del parco circostante, è
l’estroflessione delle rovine interiori. È principalmente in virtù della
cessata funzionalità dell’abitazione, della sua diserzione e dell’emersione di
spazi marginali, vuoti, che la costruzione si offre quale metafora
dell’abbandono. La scrittura rende manifesta la desolazione del castello
attraverso l’immagine dell’invasione vegetale sui muri: l’edera s’insinua
ovunque, tra le soglie delle porte e i gradini delle scale. L’eco dei passi
negli appartamenti vuoti, la tela del ragno negli angoli più remoti, la
penombra delle sale disadorne e ancora i passaggi segreti e le ramificazioni
dei sotterranei vuoti contribuiscono a creare uno spazio labirintico.].
L’assenza emerge laddove crescono i muschi, nelle soglie delle porte laddove
corre un filo di edera. In particolare, la tela del ragno evoca la precarietà
dell’esistenza. Fragile struttura circolare, come la goccia di rugiada, esiste
nella sua perfezione per pochi istanti per poi essere inevitabilmente
distrutta. L’opalescenza della tela condensa il minimo gesto rendendolo
visibile, ma al tempo stesso, nell’eterno ritorno dei suoi infiniti arabeschi
regolari, si lascia interpretare come memento mori. Come una ragnatela o una
rovina, l’edera s’insinua tra le fessure, le colma ma ne rende visibile il
vuoto aprendo metaforicamente l’emorragia di una mancanza originale.
Se, come afferma
Francesco Orlando,
«la misura della
defunzionalizzazione di luoghi e di oggetti è data dal tema dell’invasione
vegetale» (Orlando 1993: 140),
allora la presenza
pervasiva della natura nell’edificio assume un valore simbolico legato alla
perdita.
«Il castello cristallizza un immaginario. Reca i
segni di diverse epoche come un palinsesto. Si trova al centro di un triplo
gioco tra passato e presente, topologia e racconto, modello e variazione»
(Delon 2010: 74).
Il tema dell’addio, come rappresentazione
della “dimensione del compiuto” (Starobinski 1964: 179) che
trova nelle rovine del maniero ricoperte dalle erbe e dai cespugli il suo
scenario privilegiato, attraversa i Mémoires di Chateaubriand.
Il tema del ricordo,
quello della vecchiaia e, più in generale, quello della fugacità del tempo sono
i fondamenti di una scrittura che, tramite la paratassi, le metafore e le
antitesi, elegge la rovina quale tratto costitutivo:
«La parola
letteraria sembra un immenso e grandioso frammento, la rovina di un’Atlantide perduta…» (Barthes 1953: 121).
Da qui, una poetica delle rovine che sancisce
l’origine della scrittura, in particolare quella autobiografica.
Nell’Ottocento, dopo aver trovato nella scrittura di Chateaubriand la celebrazione dei propri fasti, il tema della rovina è abbandonato dalla letteratura e dalle arti visive, che mettono in scena altre strategie d’identificazione: il doppio, l’ombra e lo specchio. In effetti, è in particolare nel periodo compreso tra il 1750 e il 1820 che la rovina popola l’immaginario europeo tanto da diventarne un motivo di identificazione personale. Nel saggio L’invention de la liberté. 1700, 1789 (1964) Jean Starobinski introduce la sua riflessione sulle rovine ponendo un quesito significativo:
Nell’Ottocento, dopo aver trovato nella scrittura di Chateaubriand la celebrazione dei propri fasti, il tema della rovina è abbandonato dalla letteratura e dalle arti visive, che mettono in scena altre strategie d’identificazione: il doppio, l’ombra e lo specchio. In effetti, è in particolare nel periodo compreso tra il 1750 e il 1820 che la rovina popola l’immaginario europeo tanto da diventarne un motivo di identificazione personale. Nel saggio L’invention de la liberté. 1700, 1789 (1964) Jean Starobinski introduce la sua riflessione sulle rovine ponendo un quesito significativo:
«Al di fuori della poesia, esiste per le arti visive (che
sono le arti della presenza) la possibilità di esprimere l’assenza?»
(Starobinski 1964: 179)
BIBLIOGRAFIA
BARTHES R. (1953), "Chateaubriand. Vie de Rancé" in Il grado zero della scrittura.Nuovi saggi, Einaudi 1972, Torino, pp. 105-116.
BURKE E. (1757), Inchiesta sul Bello e il Sublime, Aesthetica 2002, Milano.
CHATEAUBRIAND de R. (1849-50), Memorie d’Oltretomba, Longanesi 2001, Milano, 2 voll.
DIDEROT D. (1767), Ruines et paysage. Salon 1767, Hermann 2005, Paris.
DU BELLAY J. (1558), Le Antichità di Roma, Carocci 2005, Roma.
DUROT-BOUCÉ E. (2004), Le lierre et la chauve-souris. Réveils gothiques. Émergence du roman noir
HOGARTH W. (1753), L’analisi della bellezza, Aesthetica 1999,Palermo .
ORLANDO F. (1993), Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino.
STAROBINSKI J. (1964), L’Invenzione della libertà. 1700-1789, Abscondita 2008, Milano..
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STAROBINSKI J. (1964), L’Invenzione della libertà. 1700-1789, Abscondita 2008, Milano..
TESTO
COMPLETO:
Elena
Mazzoleni Chateaubriand e le rovine come paesaggio affettivo
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