( Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Adelphi 1997)
Col
nome di corpi celesti venivano indicati, nei testi
scolastici di anni lontanissimi, tutti quegli oggetti che riempiono lo spazio intorno
alla Terra. E anche il nome oggetto, riferendosi a quello spazio,
allora incontaminato, purissimo, si colorava pallidamente di azzurro. Noi —
che sfogliavamo quei testi e ammiravamo quelle carte della volta celeste —
eravamo invece sulla Terra, che non era un corpo
celeste, ma era data come
una palla scura, terrosa, niente affatto aerea. Perciò, durante tutta una
vita, poteva accadere che, guardando di sera, nella luce tranquilla della
campagna, quel vasto spazio sopra di noi, pensassimo vagamente: « Oh, potessimo anche noi trovarci
lassù!». Le leggende e i
testi scolastici parlavano di quello spazio azzurro e di quei corpi celesti
quasi come di un sovramondo. Agli abitanti della Terra essi aprivano
tacitamente le grandi mappe dei sogni, svegliavano un confuso senso di colpevolezza.
Mai avremmo conosciuto da vicino un corpo
celeste! Non eravamo degni!,
pensava l'anonimo studente. Invece, su un corpo
celeste, su unoggetto azzurro collocato nello spazio,
proveniente da lontano, o immobile in quel punto (cosi sembrava) da epoche
immemorabili, vivevamo anche noi: corpo celeste, o oggetto del sovramondo,era
anche la Terra, una volta
sollevato delicatamente quel cartellino col nome di pianeta Terra. Eravamo quel sovramondo.
Quando
ho compreso questo, non subito, a poco a poco, nel continuo terremoto del crescere,
nell'amarezza di scoperte inattese (della infelicità, del passare delle cose),
sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile.
L'emozione si faceva reverenza, diveniva la sorpresa e la gioia di una più
grande scoperta, quella di un destino impareggiabile. Mi trovavo anche iosulla Terra, nello spazio, e il
mio destino non era molto dissimile da quello degli oggetti e corpi celesti
tanto seguiti e ammirati. Dove avrebbe portato non sapevo: forse su, forse giù,
forse nel buio, forse nella luce. Una cosa era certa, era nozione ormai
incancellabile: tutto il mondo era quel sovramondo. Anche la Terra e il
paese dove abitavo; e la collocazione, o vera patria di tutti, era quel sovramondo!
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In Corpo
celeste, una specie di testamento spirituale che la Ortese allestì prima di
morire, la scrittrice individuava nella Rivoluzione francese e nella presa
della Bastiglia il momento storico in cui l'intelligenza ha mostrato i lati bui
e pericolosi della sua egemonia sull'uomo:
«Allora fu dichiarata la sovranità
divina dell'Intelligenza. […] E l'Intelligenza, paludata di Ragione, aveva
giurato di agire, e fondare la libertà democratica: che non è la libertà del respiro.
È semplicemente la libertà di tutti, la libertà senza limite, che alla fine
toglie il Respiro a tutti».
La cieca volontà di fare tabula rasa dei simboli,
di violare con una furia sinistra i legami con la storia e col passato si è
tradotta in una «libertà del nulla», che ha prodotto solo morte e omologazione,
«l'uguaglianza invece delle differenze, una sterminata piattezza dovunque»:
«Così si ballò e si cantò perché i Re erano caduti. Non si vide che i Re erano
simboli, e la loro funzione (che certo andava corretta) enorme, nel
comportamento dell'uomo, nella sua cultura, che è tutt'uno con l'uomo, perché
l'uomo è cultura. Questa funzione segnava i gradi, i limiti, i ruoli
dell'essere».
Senza più confini, con un delirio di onnipotenza destinato
fatalmente a rovesciarsi in frustrazione e disincanto, l'uomo ha pensato da
quel momento di avere a portata di mano una felicità da attingere grazie al
possesso, alla materia, al benessere, al facile guadagno. La cultura dell'avere
ha preso il posto di quella dell'essere e il paradiso dell'economia fu promesso
a tutti in cambio della distruzione dei retaggi e della tradizione, con la
cancellazione repentina della Natura e delle sue leggi non scritte. Da tali
promesse, scrive la Ortese, derivarono
«tutte le altre religioni del vivere, e
nacque l'uomo moderno. L'uomo “occidentale” con la sua “cultura”: che, se
guardi bene, è solo cultura del numero (dell'Utile). E del proclama. Sotto
l'utile e il proclama, di tutti i miglioramenti, domina e lavora un solo
Signore: il Massacro. Tutta la Natura è fatta a pezzi, e venduta, mentre noi
sogniamo la Felicità universale, e la Terra, sotto i nostri piedi, scricchiola.
Avidità e invidia (della Intelligenza), insomma, hanno avuto la meglio: sulla
Ragione, e legge, e la sua appassionata cultura».
«Credo che
riforme e rivoluzioni inizino di dentro, e abbiano una sola strada da
percorrere: il rinnovamento della coscienza e del cuore dell'uomo. Tutte le
riforme e le rivoluzioni che non abbiano per oggetto il rinnovamento, la
rinascita della vita morale (prima che religiosa e politica) dell'uomo, sono
illusorie, e destinate alla sconfitta in partenza»
Oggi
«vi è il
diritto universale, legittimato dalla sola forza, di mercanteggiare e
corrompere ciò che dovrebbe essere intoccabile: gli spazi terrestri e celesti,
con le loro creature che respirano; gli spazi sociali, con i figli dell'uomo
che respirano. Distruggere campi e foreste, mutare e pervertire il ritmo delle
stagioni; procedere tranquillamente alla reclusione e al massacro di milioni di
creature ogni giorno solo per nutrirsi di carne o per indossare pellicce;
torturare liberamente, in liberi laboratori, milioni di esseri sensibili e
ignoti quanto l'uomo, torturarli fino alla morte… tutto questo viene presentato
come difesa del proprio respiro (o libertà) dell'uomo»
rispetto della
regola morale, vale a dire nella difesa del cucciolo, cioè del debole e
dell'indifeso.
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Per quelli che videro il cielo e mai lo dimenticarono,
che parlano al di sopra dell'emozione, dove l'anima è calma,
che non credono, o credono poco ai partiti, alle classi, ai confini, alle barriere, alle armi, alle guerre,
che nel denaro non hanno posto alcuna parte dell'anima e quindi sono incomprabili.
Per quelli che vedono il dolore, l'abuso, vedono la bontà o l'iniquità, dovunque siano e sentono come dovere il parlarne.
Per i cercatori di silenzio, di spazio, di notte che è intorno al mondo, di luce che è intorno al cuore.
Per quelli che attraversano questa vita lieti come fanciulli e vigili come madri…
La libertà è un respiro.
che parlano al di sopra dell'emozione, dove l'anima è calma,
che non credono, o credono poco ai partiti, alle classi, ai confini, alle barriere, alle armi, alle guerre,
che nel denaro non hanno posto alcuna parte dell'anima e quindi sono incomprabili.
Per quelli che vedono il dolore, l'abuso, vedono la bontà o l'iniquità, dovunque siano e sentono come dovere il parlarne.
Per i cercatori di silenzio, di spazio, di notte che è intorno al mondo, di luce che è intorno al cuore.
Per quelli che attraversano questa vita lieti come fanciulli e vigili come madri…
La libertà è un respiro.
«Tutti tentativi, dapprima felici, poi via via
nevrotici e travagliati, di rendere il primo impatto col mondo (estasi, meraviglia)
e poi lo sconforto vedendo questo mondo sempre più mutarsi in un deserto, dove
nessuna cosa sembrava avere senso, destinazione: un mondo di mostri e
fantasmi».
“Scrivere è cercare la calma, e qualche volta
trovarla. E' tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge
realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene."
Da “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi” in Da Moby Dick all’ Orsa Bianca di A. M. Ortese (Adelphi, 2011)
… Mi distoglieva sempre dal farlo qualche cosa che adesso mi
pare riconoscere come la furia degli anni giovani. Il disinteresse
supremo di questi per un freddo marmo, nasconda esso pure il corpo
del poeta più amato. Ma viene per tutti , ed è venuta anche per me, la
mattina in cui la furia degli anni giovani sembra scomparsa all’orizzonte
come la nube di un bel temporale . mattina di primavera , terribilmente vuota,
in cui ci si sveglia e non c’è più un amico, una speranza, e si è simile al
sasso, alla foglia caduta ieri. La primavera batte con dita verdi
sui vetri tiepidi, azzurrini, e apre adii senza parola qualche nuova
strada. Allora si deve uscire, e si va volentieri, cercando, con l’aria, il
vento di qualche immagine. Un po’ d’azzurro, due alberi, sono simili a mani che
ti consolino.
Così ho pensato di andare in fondo alla grotta, in fondo alla
quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso.
Sono entrata in una piazza, poi in una strada, poi in altre strade e piazze. Tutto era infinitamente nuovo, lucente. Le facciate dei palazzi avevano un’aria di festa e di gioventù; la gente pur nelle rughe che pieghettavano sottilmente i volti, pur nel frusto degli abiti, camminava per i marciapiedi con la semplicità angelica , come incendiata dal raggio di un mondo sovrumano. Provavo la sensazione di scendere a un tratto nel mondo brillante della mia infanzia, dove tutto è benessere, luce, contemplazione.
Sono entrata in una piazza, poi in una strada, poi in altre strade e piazze. Tutto era infinitamente nuovo, lucente. Le facciate dei palazzi avevano un’aria di festa e di gioventù; la gente pur nelle rughe che pieghettavano sottilmente i volti, pur nel frusto degli abiti, camminava per i marciapiedi con la semplicità angelica , come incendiata dal raggio di un mondo sovrumano. Provavo la sensazione di scendere a un tratto nel mondo brillante della mia infanzia, dove tutto è benessere, luce, contemplazione.
Silvia, rimembri ancora…
Mi vengono a mente le sue parole, passano come uccelli in un cielo
deserto, tutte, tutte le sue parole di luce, i vocativi affannosi e
splendidi, le esclamazioni accorate, quelle frasi ampie e luminose come
giri concentrici del mare turbato da un sassolino…
RADIOTRE
Anna Maria Ortese Quattordicesima puntata
ANNA MARIA ORTESE
Scrittrice che per la continua invenzione e per l'aperto sperimentalismo delle forme narrative risulta assai poco riportabile ai canoni consolidati, Anna Maria Ortese ha condotto un'esistenza alquanto ritrosa e solitaria, cui hanno contribuito sia una vita in pratica senza radici e segnata dal dolore, anzitutto per i numerosi lutti familiari (che segnano in profondità anche la sua opera), sia un atteggiamento fortemente critico verso il mondo culturale e intellettuale del suo tempo. Il suo esordio narrativo avviene nel 1937 coi racconti degli Angelici dolori. Seguiranno numerose altre opere, tutte contraddistinte da un'originalissima scrittura capace di alternare e fondere i registri narrativi più diversi, dall'esattezza realistica, all'intensità lirica, al racconto magico e visionario. Tra le altre, ricordiamoL'infanta sepolta (1950), Il mare non bagna Napoli (1953), L'iguana (1965), Il porto di Toledo (1975),Il cappello piumato (1979), Il cardillo addolorato (1993) eAlonso e i visionari (1997). Un interessantissimo testo di poetica può essere considerato Corpo celeste (1997). Le poesie dell'Ortese, scritte durante l'intero arco della sua esistenza, sono raccolte nei volumi La luna che trascorre (1996) e Il mio paese è la notte. Poesie inedite 1930-1980 (1998). |
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