03/11/19

Realismo, naturalismo, verismo; Giovanni Verga

Il Realismo letterario

Il nuovo pensiero scientifico e filosofico ebbe immediati riflessi sulla letteratura del tempo, anche se non bisogna dimenticare che una tendenza realistica era già presente nel Romanticismo: ne sono un esempio Manzoni, Dickens, Stendhal, Balzac, ritenuto infatti il precursore del Realismo vero e proprio della seconda metà dell’Ottocento; la differenza tra il Realismo romantico e quello positivistico consiste nel fatto che il primo fu illuminato da una concezione religiosa e idealistica della vita, mentre il secondo fu materialistico e scientifico.
In precedenza la letteratura aveva avuto come protagonista l’uomo, ritenuto un essere privilegiato, dotato di spirito, autocoscienza e libero arbitrio, dominatore della natura e della storia. Con l’avvento del Realismo, invece, l’uomo viene considerato una creatura come le altre, sottoposta agli stessi condizionamenti, come dice Hyppolite Taine (1828-1893), dell’ereditarietà (la race), dell’ambiente (il milieu), del momento storico (il moment).
La letteratura che lo rappresenta deve quindi essere realistica, abbandonando il suggestivo, il sentimentale, il fantastico e attenendosi al positivo, al reale, all’oggettivo.
Rispettando tale concezione la poetica del Realismo si fonda su due principi fondamentali:
  1. il reale-positivo come oggetto;
  2. l’impersonalità dell’opera d’arte.

Attenendosi al primo principio gli scrittori posero l’attenzione sulle classi più umili, in quanto più vicine alla “natura” e al “vero”, così facendo essi rappresentarono l’arretratezza e la miseria delle plebi, del proletariato e della piccola borghesia richiamando lo Stato al dovere di realizzare l’uguaglianza ed il benessere, ovvero, come dice il De Sanctis, di “calare l’ideale nel reale”.
Per quanto riguarda invece il secondo principio, esso venne interpretato diversamente dai naturalisti e dai veristi: i primi lo esasperarono, riducendo l’opera d’arte ad una rappresentazione fotografica e scientifica della realtà, i secondi lo considerarono un freno al soggettivismo dello scrittore.
Al fine di rispettare questi due principi venne abbandonato il romanzo storico e ci si rivolse a quello sociale, vennero esclusi i lirismi, le rievocazioni autobiografiche, i commenti dello scrittore e furono inoltre inseriti l’uso di un linguaggio semplice e popolare, con l’introduzione di termini e costrutti dialettali, di monologhi e dialoghi, e la descrizione particolareggiata di paesaggi, personaggi e ambienti.
Il Realismo fu dunque l’indirizzo generale della cultura europea della seconda metà dell’800, esso comunque si adeguò alle particolari condizioni politiche, economiche, e sociali di ciascun popolo e assunse in rapporto ad esse caratteristiche diverse.
Il Realismo letterario sorse in Francia, dove assunse il nome di Naturalismo, ed ebbe il suo precursore in Honoré de Balzac (1799-1850), autore di una serie di romanzi che vanno sotto il titolo generale di “Commedia umana”; uno dei suoi scrittori più significativi fu invece Gustave Flaubert (1821-1880), autore del celebre romanzo “Madame Bovary”. Egli a differenza di Stendhal e Balzac, che intervenivano nel corso della narrazione con commenti e giudizi, si limitò a scegliere i fatti e a tradurli in linguaggio, convinto che la perfetta espressione di un fatto bastasse ad interpretarlo; lo scrittore doveva quindi rinunciare a confessarsi e a prendere posizione, vivendo unicamente in funzione dell’opera. A tale concezione, che può essere considerata una prima definizione della teoria dell’impersonalità, Flaubert giunse reprimendo le tendenze romantiche del suo temperamento senza tuttavia sopraffarle completamente.
Altra importante figura del Naturalismo fu Emile Zola (1840-1902), considerato per esattezza il suo caposcuola: egli tentò di dare una veste teorica al movimento, giustificando la trasposizione del metodo sperimentale dall’ambito delle scienze fisiche a quello dei fenomeni morali e spirituali. Seguono poi Alphonse Daudet (1840-1897), Guy de Maupassant (1850-1893) e i fratelli Edmond (1822-1896) e Jules (1830-1870) de Gouncourt.
Dalla divulgazione dei prototipi francesi e dalle discussioni condotte da filosofi e storici circa la portata dello scientismo positivista francese prese le mosse il Realismo letterario italiano, che va sotto il nome di Verismo e i cui maggior rappresentanti furono Luigi Capuana, considerato il teorico riconosciuto del Verismo, Giovanni Verga e F. de Roberto.
Naturalismo e Verismo furono due momenti letterari affini , che ebbero in comune i due canoni del Realismo letterario, ma che essendosi svolti in ambienti culturalmente, economicamente e socialmente diversi finirono con il differenziarsi assumendo caratteristiche proprie.
Prima di tutto erano differenti gli ambienti e le classi sociali oggetto di studio: i naturalisti ritraevano la vita dei quartieri periferici delle grandi metropoli e dei bassifondi di Parigi, popolati da esseri depravati, emarginati, abbrutiti dalla miseria, dall’alcool e dal vizio, in contrasto con la borghesia affaristica.
L’ Italia, a causa del ritardo del suo sviluppo industriale non aveva grandi metropoli né bassifondi periferici nelle sue città, perciò i veristi ritraevano la vita stentata e primitiva della piccola borghesia e delle classi più umili, quali pescatori, contadini, minatori, ecc.
Differente era inoltre il porsi dei veristi e dei naturalisti di fronte alla realtà: l’atteggiamento dei naturalisti era attivo, polemico, provocatorio, volto alla denuncia delle ingiustizie sociali, accompagnata dalla fiducia ottimistica nel loro superamento; quello dei veristi era invece più contemplativo, volto a ritrarre le miserie degli umili senza volontà di denuncia, e soprattutto senza fiducia nel loro riscatto.
Altra differenza è il rapporto tra lo scrittore ed il pubblico: i naturalisti operavano in una società più solidale, matura ed evoluta, sensibile all’ansia di rinnovamento da loro auspicata; i veristi operavano invece in una società ancora arretrata, sia a livello di plebi, incapaci di recepire un messaggio di riscossa ad esse rivolto, sia a livello della borghesia e dell’aristocrazia, sorde ai problemi sociali. Infine, il naturalismo assunse subito un carattere nazionale in quanto operante in una nazione socialmente omogenea quale era appunto la Francia; il verismo ebbe invece un carattere meridionale, regionale, dialettale. Dopo l’unità rimasero infatti le vecchie strutture economiche, aggravate dalla differenza di sviluppo tra Nord Italia in ascesa e il Sud rimasto arcaico, immobile e chiuso in una sorta di fatalistica rassegnazione.
A prescindere da tali differenze il naturalismo ed il verismo ebbero comunque il merito di aver reagito all’inconcludente sentimentalismo del secondo romanticismo per una concezione più concreta, vigorosa ed operosa della vita; di aver riaperto all’arte il campo del reale; di aver evidenziato le miserie e le pene delle classi più umili e di aver infine creato una lingua ed uno stile più semplici, agili, vigorosi e popolari.

Il Realismo inglese

Nella seconda metà del XIX secolo, ovvero verso la fine dell’età vittoriana, il romanzo inglese assunse caratteristiche chiaramente differenti da quelle della prima metà del secolo: gli scrittori cessarono di considerarsi degli intrattenitori o dei riformatori sociali, quali erano stati, ad esempio, Dickens e Thackeray, furono sempre più influenzati dai grandi scrittori continentali come Flaubert, Tolstoy e Dostoevskij e mostrarono una tendenza verso il realismo (lontana però dai canoni del naturalismo) visibile specialmente in George Elliot (1819-1880), pseudonimo di Mary Ann Evans, ed in Thomas Hardy (1840-1928), con cui sembra culminare quella tradizione realistica del romanzo ottocentesco, che aveva avuto inizio con il realismo romantico di Dickens.
Hardy è uno dei migliori esempi di romanziere della fine dell’epoca vittoriana. Il suo primo successo, “Via dalla pazza folla” (1874), è già caratterizzato da quella visione amara e desolata della vita, in cui l’uomo è schiacciato da un fato indifferente o spesso ostile, che caratterizzerà le opere successive, e che assumerà accenti sempre più foschi. Egli si presenta come un narratore onnisciente e “riservato”, mostra un atteggiamento compassionevole verso i suoi personaggi, i quali non perdono mai la dignità morale e mostrano un certo tipo di stoicismo nell’accettare l’inevitabile.
Per la descrizione delle scene egli si serve di una tecnica di tipo cinematografico: inizia con una visione panoramica, per poi focalizzare i vari elementi, attraverso un dettagliato primo piano. Con questo tipo di descrizione, egli riesce a dare una percezione della scena attraverso i sensi: vista, udito e perfino tatto. La ricchezza delle immagini e l’uso del linguaggio parlato contribuiscono poi a creare un’intensa atmosfera e ad accrescere il realismo delle sue descrizioni.

La stagione realistica russa

Un interessante caratteristica dell’età del Realismo è l’allargamento della geografia letteraria dell’Europa, che ora comprende anche la Russia. Alla nascita del Realismo narrativo russo concorrono numerosi fattori quali, ad esempio, il naturalismo satirico di Gogol’, il realismo sentimentale di Balzac, ma soprattutto la nuova attenzione ai problemi sociali.
Tra le costanti di questa realtà letteraria si possono indicare un atteggiamento di comprensione verso tutti gli esseri umani, la volontà di portare alla ribalta gli aspetti finora sottaciuti e più infamanti della realtà russa, una relativa trascuratezza per la costruzione e l’intreccio narrativo a favore della psicologia, dell’introspezione e dell’analisi sociale, ed infine l’impegno a scegliere i soggetti esclusivamente dalla realtà contemporanea.
Tra i nomi più importanti troviamo quello di Aksakov, il quale rappresenta un momento di pura oggettività, aliena da motivazioni ideologiche riscontrabili invece in Goncarov e Turgenev.
La stagione del realismo russo culmina però in L. Tolstoj (1828-1910) e in Dostoevskij (1821-1881), il quale partito dall’iniziale influsso di Gogol’, Balzac, Dickens, giunse, sotto l’impulso di una profonda crisi religiosa e di una fortissima tendenza all’introspezione, a risultati che si pongono all’inizio del moderno romanzo psicologico.

Introduzione al Naturalismo

Gli scrittori veristi italiani nell’elaborare le loro teorie letterarie  e nello scrivere le loro opere, prendono le mosse, sia pur con sensibili divergenze, dal Naturalismo che si afferma in Francia negli anni Settanta dell'ottocento. 
     La parola “Naturalismo” compare per la prima volta in un saggio del 1858 del critico positivista Hippolyte Taine (1828-1893). D’altra parte lo stesso Taine nel 1865 darà un contributo alla teoria del romanzo e allo studio dei temperamenti umani mostrando che gli  individui sono sempre determinati da tre fattori: le leggi della razza  e dell’eredità, l’ambiente sociale, il momento storico (in francese: race, milieu, moment).


     Per Taine il modello di "scrittore scienziato" era Balzac, l’autore di quel grandioso quadro della società francese nell’età della Restaurazione, che è la Commedia umana, sottolineando la sua precisione di anatomista e di chimico nell’analizzare la natura umana e le sue eccezioni patologiche. 
    Accanto a Balzac, proposto da Taine, modelli letterari della scuola naturalista furono i romanzieri realisti degli anni Cinquanta  e Sessanta: in primo luogo Gustave Flaubert, l’autore di Madame Bovary (1857), per la sua teoria dell’impersonalità (scriveva Flaubert nel 1857: “L’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile  e onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma non lo si veda mai.”); in secondo luogo i fratelli Jules ed Edmond de Goncourt, per la loro cura di costruire i loro romanzi in base  ad una documentazione minuziosa e diretta degli ambienti sociali rappresentati e  per l’attenzione dimostrata ai ceti inferiori, a fenomeni di degradazione umana e a casi patologici. Esemplare in tale direzione è il romanzo Germinie Lacerteux (1865), che analizza la degradazione fisica  e psicologica di una camerirera  isterica.
    Ma il vero caposcuola del Naturalismo fu Emile Zola (1840-1902). 
Le concezioni che stanno alla base della narrativa zoliana si trovano esposte nella forma più organica nel volume Il romanzo sperimentale del 1880. Zola sostiene che il metodo sperimentale delle scienze, applicato in un primo tempo ai corpi inanimati (chimica, fisica), poi ai corpi viventi (fisiologia), deve essere ora applicato anche alla sfera “spirituale”, agli atti intellettuali  e passionali dell’uomo. Di conseguenza la letteratura  e la filosofia, che hanno come oggetto di indagine tali atti, devono entrare a far parte delle scienze, adottando il metodo sperimentale (da qui la formula  “romanzo sperimentale”).
     Queste concezioni prendono corpo nell’opera fondamentale di Zola, I Rougon-Macquart, storia naturale e  sociale di una famiglia sotto il secondo Impero. Si tratta di un ciclo di venti romanzi, pubblicati fra il 1871 e il 1893, in cui rifacendosi alla Commedia umana di Balzac, lo scrittore traccia un quadro della società francese del secondo Impero attraverso le vicende dei membri di una famiglia.
     Dietro la facciata dei propositi scientifici  e del crudo realismo “sociale” è facile però scorgere in Zola il permanere di un temperamento fondamentalmente romantico, che si rivela talora in episodi lirici o idillici. Anche nello stile Zola è lontano dalla secchezza essenziale del puro referto scientifico: la sua prosa è spesso ridondante, corposa, ricca di colore e di sonorità.
     In Italia l’influenza del Naturalismo comincia  dopo l’uscita dell’Assommoir[L’ammazzatoio] nel 1877 e l’entusiastica recensione che ne fece, nello stesso anno, Luigi Capuana sul “Corriere della Sera”:  alcuni romanzieri   e critici italiani  cominciano a progettare la nascita anche nel nostro paese del “romanzo moderno” ispirato agli stessi principi del Naturalismo francese. Questo gruppo di scrittori si riunisce a Milano fra la fine del 1877   e la primavera del 1878  e dà vita al movimento del  Verismo corispondente al Naturalismo francese.

    Il verismo 

 Il primo racconto verista di  Giovanni Verga , Rosso Malpelo, esce nell’estate del 1878; il primo romanzo verista di Capuana, Giacinta, è del 1879. L’anno dopo uscirà la racconta di racconti Vita dei campi di Verga che, all’inizio del 1881, pubblicherà il primo romanzo del ciclo dei “Vinti”, I Malavoglia.

Il verismo italiano accetta pienamente la cultura positivistica, ma sottolinea con assai minore energia il momento scientifico e l’impegno sociale nella rappresentazione. Fa  propria la concezione deterministica  e la teoria della necessità di muovere dai livelli bassi della scala sociale per risalire a quelli più elevati, ma tende a rifiutare ogni teoria organica che faccia dell’arte un’ancella della scienza.
     I veristi italiani sono proprietari terrieri del Sud, legati a posizioni conservatrici o reazionarie: non vivono la realtà cittadina  e operaia come fanno i naturalisti francesi, che invece sono spesso democratici, radicali  e filosocialisti. Di qui anche la differenza dei contenuti: i veristi rappresentano soprattutto le campagne e i contadini (in misura assai minore la città  e gli operai, preferiti invece dai naturalisti francesi)  e si ispirano semmai ai problemi posti dalla “questione meridionale”.

     I veristi più rigorosi furono tre siciliani, Giovanni Verga, Luigi Capuana  e Federico De Roberto. Aderirono al Verismo, seppure con minore coscienza teorica, pure Matilde Serao,  (vedi la sua pagina sul Ventre di Napoli e i racconti al link  MATILDE SERAO)
che rappresenta soprattutto la realtà napoletana, i toscani Renato Fucini  e  Marco Pratesi. 
Pure D’Annunzio ebbe una sua breve stagione verista, mentre la prima lezione del   Verismo continuò nel primo Pirandello  e nella Deledda. 
     
Anche se uno dei capolavori del  Verismo  uscì nel 1894 (si tratta di I Vicerè di De Roberto), la parabola del Verismo - aperta nel 1878 con Rosso Malpelo di Verga  - può dirsi conclusa fra il 1889, quando venne pubblicato Il piacere di D’Annunzio,  e il 1891, anno in cui Pascoli stampa Myricae. Era cominciata  la stagione del Decadentismo. 

GIOVANNI VERGA

http://www.parchiletterari.com/parchi/giovanniverga/vita.php

Fu lunga l’esistenza di Giovanni Verga. Salutò, ventenne, l’arrivo di Garibaldi in Sicilia, ma assistette anche al primo conflitto mondiale e al sorgere del Fascismo. Iniziò a scrivere giovanissimo, nella città natale.
Catania, a Firenze, a Milano realizzò molteplici opere. Diede però vita ai capolavori in un solo decennio. E cioè quando, «da lontano», dalla moderna Milano delle «Banche» e «Imprese industriali», si rivolse a narrare l’iniziale manifestarsi, nel suo mondo originario, della «brama di meglio» e dell’«avidità di ricchezza». Riuscì a consegnarci una straordinaria rappresentazione letteraria della Sicilia ottocentesca. E compì una originalissima operazione di “traduzione”, linguistica e antropologica, funzionale ai bisogni conoscitivi della nuova Italia. Ma la significatività delle sue opere non resta confinata al momento della loro creazione. I suoi vinti dalla «fiumana del progresso» allungano la loro ombra su un’epoca, la nostra, in cui non appare più scontato il nesso tra “più” e “meglio” e il progresso sembra ormai ridotto a un vuoto andare avanti, senza meta e senza possibilità di ritorno. Ritroviamo nel nostro tempo la condizione prefigurata da ’Ntoni all’ombra del nespolo, nel dare l’addio alla sua comunità.
 E il tragico destino di Gesualdo, il suo totale identificarsi con la roba, continua a porci domande di senso.
Con il suo demistificante realismo, con la sua sconsolata forza conoscitiva, con la pietà immanente alla sua opera, e mai gridata, Verga entra nella nostra vita. E, a volerlo interrogare, “parla” anche al nostro presente.(R. Luperini)

VITA ED OPERE  di Giovanni Verga

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La novella "Fantasticheria" : COMMENTO

La novella che presenta l'esaltazione dei valori patriarcali è divisibile in quattro blocchi. I primi due contengono la risposta dell'autore alla domanda postagli dall'amica aristocratica.

 Il terzo è un'anticipazione dei personaggi che in seguito saranno presenti nei Malavoglia. 

L'ultimo è l'enunciazione dell'ideale dell'ostrica vale a dire l'eroico attaccamento dei miseri alla propria condizione e la celebrazione della rassegnazione coraggiosa al proprio destino. 

Al mondo aristocratico e raffinato della giovane dama, di cui l'autore era stato affascinato all'inizio della sua stagione creativa, il Verga contrappone il mondo degli umili e degli oppressi, con la loro vita semplice e povera ma più autentica perché fondata sulla rassegnazione eroica al proprio destino. Vita fatta di valori semplici, di sentimenti e di dolori autentici e non d'atteggiamenti convenzionali e falsi come la società aristocratica. Al mondo della città. caotico e turbinoso, in continua trasformazione, egli contrappone la società arcaica siciliana fatta sì di ritmi sempre uguali, di miseria e lavoro, di gerarchie immutabili, d'egoismi individuali, di violenza della natura, ma per questo più vera perché capace che accettare fino in fondo la durezza della lotta per la vita. Alle "irrequietudini del pensiero vagabondo" lo scrittore contrappone "i sentimenti miti, semplici che si succedono calmi, inalterati di generazione in generazione".

 Ma come esprimere questo mondo attraverso il canone dell'impersonalità secondo l'ottica verista? Nella novella il Verga lo spiega bene "Bisogna farsi piccini, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori". In questo modo, adottando il punto di vista di chi vive quella realtà, la lontananza che separa il mondo borghese da quello dei poveri, è superata con la fantasticheria. La superiorità di classe, che non permette d'immedesimarsi a fondo nei personaggi rappresentati, è superata  attraverso il rimpicciolimento. In conclusione, si può affermare che questa novella-saggio, manifesto della poetica verista di Verga, è importante poiché, oltre ad introdurre ideali e canoni veristi quali il canone dell'impersonalità, la religione della famiglia e l'ideale dell'ostrica, rompe con tutti i temi presenti nella sua precedente produzione letteraria. Nella novella, infatti, come in quasi tutte le altre, presenti nella raccolta Vita da campi, sono superate le tematiche romantiche riguardanti amori aristocratici e si affermano temi  fondamentali che hanno per oggetto il mondo delle plebi meridionali, mondo che in seguito sarà presente nel romanzo I Malavoglia.

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ALCUNE DEFINIZIONI attribuite dai critici allo stile di Verga

IMPERSONALITA'
E' la scomparsa, l'“eclisse” del narratore dal narrato, che viene teorizzata da Verga nella prefazione al racconto L'amante di Gramigna, in forma di lettera allo scrittore e giornalista Salvatore Farina. Verga si propone di non filtrare i fatti attraverso la propria “lente”, e di mettere invece il lettore di fronte al fatto “nudo e schietto”. Il lettore deve dunque seguire le vicende e lo sviluppo delle passioni dei personaggi come se non fossero raccontate, ma si svolgessero davanti ai suoi occhi, drammaticamente. 
REGRESSIONE
In rapporto all'impersonalità, Verga applica anche la tecnica della regressione del punto di vista narrativo, che diviene interno al mondo rappresentato: i fatti devono essere riferiti con le parole della narrazione popolare. Così il narratore tradizionale, portavoce dell'autore (e dunque parlante con lo stile e il linguaggio di una persona colta), “regredisce” nei panni di un narratore incolto, un'anonima voce narrante che ha il punto di vista e il modo di esprimersi dei personaggi stessi.

Romano Luperini Verga moderno, Laterza
Si riapre il caso Verga che all' inizio degli anni 70 mobilitò i critici letterari di sinistra. Si riapre, dopo qualche decennio di oblio, grazie a un libro di Romano Luperini, Verga moderno (Laterza, pagine 185, euro 19)
Ora che Luperini rilancia un Verga maestro di modernità, precursore di Pirandello e di Tozzi, persino anticipatore delle avanguardie europee, la questione ritorna sul tappeto. «L' interesse per Verga - dice Luperini - ha coinciso con momenti particolarmente drammatici della nostra storia: il primo e il secondo dopoguerra, il ' 68. Nei periodi di tensione gli autori "pesanti" tornano all' ordine del giorno, mentre il postmoderno teorizzava la leggerezza e si concentrava su autori e temi leggeri, a partire anche dalle teorie di Calvino. Per questo, oggi, dopo anni di oblio dovuto anche all' eclissi della critica marxista che ha comportato il declino della discussione sul realismo, possiamo sperare in un ritorno all' attualità di Verga». 
La querelle anni 70 nacque a partire dall' uscita, nel ' 65, di Scrittori e popolo di Asor Rosa, che proponeva, ricorda Luperini, uno «schema nuovo, molto importante per la nostra generazione». La posizione di Asor Rosa? «Era una posizione provocatoria: mentre il marxismo tradizionale aveva appoggiato il neorealismo e il populismo, Asor Rosa sosteneva che i grandi decadenti sono portatori di verità molto più dei piccolo-borghesi del neorealismo interni al Partito comunista». Ciò che allora, come oggi, separava le diverse prospettive critiche è subito detto, partendo da una domanda cruciale: che rapporto c' è tra l' opera di Verga e la sua ideologia reazionaria? Asor Rosa rispondeva affermando che «la convinzione che il popolo contenga in sé dei valori positivi da contrapporre alla corruttela della società, in Verga non esiste» e che dunque «il rifiuto di un' ideologia progressista costituisce la fonte, non il limite della riuscita verghiana». In definitiva, per Asor Rosa (che non ha mai smesso di dedicarsi al Verga) «il fatto estetico ha proprie leggi, non confondibili con quelle della politica», per questo egli individua proprio nel «sogno di regressione alle fonti originarie della storia» il pregio dei Malavoglia: «Fantastico viaggio compiuto all' indietro verso le origini del mondo». 
Per Luperini, «il messaggio più nuovo e radicale» di Verga è un altro: che I Malavoglia si esauriscano nella religione della famiglia o nella poesia di un mondo remoto e incantato (...) significa dimezzarne la lezione e disconoscerne il messaggio forse più nuovo e radicale». A sostegno di questa tesi, apporta numerose osservazioni fino a considerare il capolavoro verghiano come uno «studio sociale»: «C' è - dice - una ricca serie di dati storico-culturali (dal dibattito sulla questione meridionale, all' «Inchiesta in Sicilia» di Franchetti e Sonnino, alla collaborazione attiva a una rivista come la Rassegna settimanale) che dimostra come Verga andò rielaborando nel romanzo fonti etnologiche e materiali sociali». Sicché, per Luperini, I Malavoglia sono una «ricostruzione intellettuale del mondo di Trezza e non tanto lo sprofondamento nell' oblio di sé in un mondo mitico». Pur riconoscendo che c' è un forte aspetto lirico, Luperini sottolinea la presenza di dati materiali della società, «i pettegolezzi e le cattiverie, i traffici e l' usura di un Paese».  Puntando sulla modernità di Verga, Luperini mette a fuoco l' umana partecipazione dell' autore dei Malavoglia per i vinti, la sensibilità per il rovescio oscuro del progresso che sta per sommergere tutto, la consapevolezza di una svolta storica che produce egoismo e alienazione. «Nel Mastro-don Gesualdo - precisa Luperini - chi segue la logica della modernità si autodistrugge, la roba è un cancro che uccide: Verga passa a contrappelo la modernità, ben sapendo che le leggi eterne della lotta per la vita portano lì, verso una selezione naturale. Dunque in lui non c' è rimpianto o nostalgia per il mondo arcaico-rurale, ma lucida e tragica consapevolezza di un trauma storico che conduce allo sradicamento e alla corruzione. Questo è un motivo di estrema attualità in un momento storico, come il nostro, in cui quel che conta è solo il mercato». 
(Recensione di Paolo Di Stefano, Il Corriere della Sera del 16 feb. 2005).

TESTI  che rivelano la POETICA di Verga:



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Inchiesta Franchetti Sonnino sulla Sicilia del 1875


"La Sicilia nel 1876" di L. Franchetti e S. Sonnino termina con un capitolo intitolato "Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane".
Nelle province di Girgenti e di Caltanissetta avvengono sotto i nostri occhi, parecchie ingiustizie verso i minori che vengono sfruttati nel lavoro delle miniere. (…) Nonostante l’impiego della tecnologia moderna per l’estrazione dello zolfo, il lavoro dei fanciulli si adopera per il trasporto dello zolfo dalle gallerie di escavazione fino al punto dove corrisponde il pozzo verticale o la galleria orizzontale. In Sicilia il lavoro minorile nelle gallerie è più duro di quanto si possa immaginare, perché il lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto del minerale sulla schiena, in sacchi o ceste: il materiale, dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, viene portato al calcarone ( si chiama la fornace in forma di conca che serve per fondere lo zolfo) per essere lavorato.
Il lavoro dei picconieri consiste nel rompere la roccia, che contiene zolfo, col piccone. Viene pagato per casse di minerali. Il partitante, o capo operaio, delegato dall’amministrazione, dà ai singoli picconieri lo stesso acconto che riceve lui sulle casse di minerali, riservando per sè il guadagno della compartecipazione dello zolfo fuso; o più spesso dà loro qualcosa di meno anche sul prezzo delle casse. La maggior parte delle volte il partitante paga a giornata calcolando questa in base ai tanti viaggi del ragazzo. Lui ha il giudizio delle quantità e qualità del minerale, poiché volta per volta esamina la cesta del ragazzo, e lo rimanda indietro quando il contenuto non sia di sua soddisfazione: il ragazzo è quello che ne busca.
I carusi sono quei poveri ragazzi che trasportano il minerale. La maggior parte dei carusi ha tra gli 8 e gli 11 anni, ma alcuni iniziano il loro lavoro a 7 anni. Ogni picconiere impiega in media da 2 a 4 carusi. Questi ragazzi percorrono coi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate a scalini nel monte, con pendenze talora ripidissime, e di cui l’angolo varia in media da 50 a 80 gradi. Gli scalini generalmente sono irregolari, più alti che larghi, sui quali ci si posa appena il piede. Le gallerie in medie sono alte 1.50 metri e larghe circa 1.10 metri, ma spesso anche meno. Il lavoro dei fanciulli nelle gallerie va dalle otto alle dieci ore al giorno e devono compiere durante queste un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalle gallerie di escavazione dello zolfo, mentre i ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano dalle 11 alle 12 ore. Il carico varia a seconda dell'età e la forza del ragazzo, ma è sempre superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età. I più piccoli trasportano un peso dai 25 ai 30 Kg, e quelli dai 16 in poi dai 70 agli 80 Kg. In media ogni carusu compie 29 viaggi di andata e 29 di ritorno. Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni sarà di £ 0.50, dei più piccoli e deboli £ 0.35; i ragazzi più grandi, di sedici e diciotto anni, guadagnano circa £ 1.50 e talvolta £ 2 e 2.50.
Accennati così sommariamente i fatti principali relativi al lavoro attuale dei ragazzi nelle zolfatare, sorge spontanea la domanda: Vi è modo di rimediare a tanto male, senza rovinare l’industria mineraria in Sicilia ?
Noi accenneremo soltanto le opinioni che si udirono pronunziare sulla questione da parecchi direttori ed amministratori di grandi zolfare.
Da una parte un amministratore di una vastissima zolfara si lamentava che il nuovo progetto di legge presentato al Parlamento, il quale mira a regolare il lavoro dei fanciulli nelle miniere, porterebbe infallibilmente alla rovina dell’industria dello zolfo. Questi diceva che il lavoro dei fanciulli era sempre indispensabile per portare il minerale dal luogo di escavazione al punto dove sbocca il pozzo di estrazione o la ferrovia inclinata, quindi doveva escogitare il modo per evitare la spesa per la costruzione di pozzi di estrazione.
In ogni caso le famiglie dei fanciulli si opporrebbero a qualunque diminuzione delle ore di lavoro che porterebbero ad una diminuzione dei loro guadagni.
Lo stesso amministratore osava affermare che i fanciulli attualmente non lavoravano mai più di 4 o 5 ore al giorno, e non sono impiegati che dai 12 anni in su.
Chiunque avesse visto il lavoro nelle zolfare siciliane, avrebbe potuto convincersi dell’insussistenza assoluta delle notizie fornite intorno alle ore di lavoro e all’età dei ragazzi.
Un capo ingegnere di una delle maggiori zolfare della Sicilia credeva che si poteva benissimo far a meno quasi del tutto del lavoro dei ragazzi con un sistema bene ordinato di gallerie inclinato, unite al pozzo di estrazione mediante alcune gallerie orizzontali. Egli riteneva che il risparmio del salario dei ragazzi avrebbe largamente compensato la maggiore spesa delle gallerie.(…) La nuova legge quindi non gli faceva nessuno spavento.
E’ stata approvata una nuova legislazione tutelatrice dei fanciulli, ossia il half-time, cioè il sistema di far corrispondere al lavoro di 10 ore degli adulti, due schiere di ragazzi di cui ognuna lavori sole 5 ore, una nelle ore del mattino, l’altra in quelle pomeridiane.
Con questo sistema si riparerebbe allo sconcio attuale, tanto nelle grandi miniere, come in quelle piccole, in cui spesso non sarebbe possibile di sostituire con opere grandiose la forza meccanica al lavoro umano.
Riguardo a una legge tutelatrice dei fanciulli è non solo utile, ma indubbiamente necessaria e indispensabile, una legge che determinasse il minimo dell’età a cui si possano impiegare bambini nelle zolfare, regolando il lavoro dei minori.
Purtroppo i genitori rovinano la salute fisica e morale delle loro creature per guadagnare di più, e nemmeno per campare, questo però non dovrebbe mai passare inosservato al legislatore.

(L. Franchetti S. Sonnino, La Sicilia nel 1876, Vallecchi Editore, Firenze, 1925).

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Stefano Brugnolo (Pisa) Libertà di Verga ovvero come il testo rovescia l’ideologia dell’autore
 Come è noto Verga nella sua novella racconta un ‘fatto vero’: una violenta rivolta avvenuta a Bronte a seguito della liberazione della Sicilia da parte dei garibaldini. Anche se certamente lo scrittore si è ispirato a quei fatti è altrettanto certo che li ha ‘mistificati’. Il primo a notarlo è stato Sciascia che ha rilevato le molte omissioni di cui sarebbe stato colpevole Verga (Sciascia 1970, 82). 
Sembra che Verga contrapponga alle illusioni del cosiddetto progresso la fatalità, il senso di un eterno ritorno dell’uguale, di una natura umana immodificabile. Come se non solo non fosse possibile uscire dai mali prodotti da vecchie e nuove strutture sociali di ingiustizia e disuguaglianza tra gli uomini ma anzi questi mali peggiorerebbero quanto più si pretende di risolverli. E’ una ‘verità’ conservatrice o reazionaria a cui molti ammiratori della novella si rifiutano certo di aderire. 
Ha scritto Mario Isnenghi a proposito di questa visione, che fu di Verga ma anche di De Roberto e Pirandello: “La fatalistica accettazione del mondo così com’è – pieno di soprusi e disuguaglianze, ma non redimibile perché la ‘Sicilia’ è il mondo e la condizione umana non muta – ha funzionato come educazione civica a rovescio per molte generazioni di lettori e cittadini acculturati, ‘colonizzando’ l’immaginario anche dei non siciliani". (Isnenghi 2011, 94s.). 
Che appunto è come dire la novella è scritta bene, ma il suo contenuto di pensiero è inaccettabile. Non è certo con questi argomenti che possiamo ‘salvare’ la novella.

Di come Libertà rispecchi e rovesci l’ideologia di Verga
Diciamo allora che, fermo restando che quella di Verga è una visione pessimista e fatalista del mondo, si tratta di capire come a partire da quella abbia poi prodotto grande arte. Non è la prima volta che accade, e pare anzi che sia quasi la regola, ma si tratta appunto di provare a capire come ciò accada. Ebbene, l’ipotesi di fondo, che va ben oltre il caso Verga, è che nel tempo del trionfo dell’ideologia del Progresso, visioni poetiche che postulano provocatoriamente strutture immodificabili del mondo e della natura umana, possono produrre momenti di verità e illuminazione.  E’ come se ogni progetto di riforma o rivoluzione della società siciliana, ma si direbbe di ogni società, si scontrasse qui con un limite insuperabile.
E anche il fatto narrato si presta a simili trasposizioni di significato. A partire dal titolo che allude ironicamente a quella che era stata la prima parola d’ordine dell’immortale trinomio rivoluzionario: libertà, uguaglianza, fraternità. Ogni rivolta o rivoluzione moderna si richiama immancabilmente a valori di libertà. Qui Verga si compiace proprio a mostrarci quanto essi siano ingannevoli e pericolosi.
Lo fa a partire dalle ‘libertà’ proclamate e promesse dai garibaldini e dai piemontesi, ma ancora una volta si sente che ad essere in questione è un problema più generale. Come se l’autore ci chiedesse provocatoriamente: che tipo di libertà? Quanta libertà? Libertà di chi? Da chi e da che cosa? Libertà per che cosa? …

Il lettore ‘gettato’ dentro alla rivolta e costretto a prendere partito-
Che il racconto ci interroghi, ci chiami in causa e quasi ci sfidi in quanto lettori idealmente progrediti che sono costretti a confrontarsi con una realtà periferica e arretrata, a me non pare solo una suggestione.  
Parto infatti da una constatazione: chi legge si sente letteralmente e quasi fisicamente coinvolto dall’azione violenta e collettiva fin dalla primissime parole. Non ha scelta: deve partecipare.
A partire appunto da quello straordinario incipit in medias res che non dà conto del ‘prima’, non dà conto del contesto, delle cause, della preparazione della rivolta. Ciò naturalmente accentua
l’impressione di qualcosa di spontaneo e irresistibile, una sorta di fenomeno naturale. Anche questa è una mistificazione, se vogliamo, visto che invece ci fu chi quella rivolta la ispirò, organizzò e guidò.
Ma è una ellissi voluta che appunto non ci permette di prendere nessuna distanza rispetto ai fatti, che ce li sbatte davanti. E che anzi sbatte noi dentro quei fatti. Ci troviamo nel centro della tempesta, ne siamo parte, senza avere tempo e modo di rifletterci sopra,
Il gesto dello scrittore è violento, non solo l’azione narrata: ci afferra come lettori secondo modalità di immersione nella scena che non è anacronistico definire cinematografiche. O siamo con i rivoltosi pronti ad affrontare le pallottole a mani nude o ci identifichiamo con i signori inseguiti e destinati a essere fatti a pezzi a colpi d’ascia. Ma sarebbe meglio dire che siamo con gli uni e con gli altri, che oscilliamo tra una identificazione e l’altra. 
Non è come con il narratore manzoniano, che prendeva tutte le distanze possibili dall’irrazionalità della folla in rivolta, qui è difficile mantenere una propria neutralità di giudizio. Certo, il narratore di Verga non si schiera mai dalla parte degli insorti, però nemmeno si dissocia apertamente, è ‘qualcuno’ che sta tra la gente, che viene trascinato dalla folla, che ne conosce dall’interno i sentimenti,
che li sente e rivive in sé, 
 E’ come se al di là del narratore noi intendessimo la voce dell’autore rivolgersi così ai suoi lettori: voi garibaldini, voi settentrionali, voi liberali, voi borghesi alla ricerca di nuovi mercati siete venuti in Sicilia a portare la libertà, e cioè a liberare queste terre dai gioghi feudali, e perciò avete chiesto al popolo di partecipare a questa impresa; ebbene, ora abbiate l’onestà di constatare il contraccolpo inevitabile della vostra azione; constatate come il popolo ha interpretato queste vostre retoriche parole d’ordine. Non distogliete gli occhi dagli effetti imprevisti che le vostre azioni e parole hanno provocato.
Insomma, Verga mette in guardia ironicamente quei suoi ‘ipocriti’ lettori-
 Verga non si fa illusioni sulla ‘bontà’ del popolo, ma tanto meno si fa illusioni sulla possibilità di coinvolgere i contadini meridionali nel nuovo Stato, dandogli in cambio solo promesse vuote.  E’ dunque a partire da presupposti ‘di destra’ che Verga ha scritto il racconto, ma come non vedere che li ha letteralmente rovesciati.
In questo senso il nostro racconto si regge tutto su un misunderstanding potente quanto rivelatore.

Come Sartre e Fanon possono aiutare a capire Libertà
Per spiegarmi meglio voglio tentare anche questa volta una comparazione estemporanea, ma spero pregnante. Mi riferisco alla prefazione di Sartre al libro di Fanon I dannati della terra, là dove, a proposito delle esplosioni di violenza contro i bianchi che si erano prodotte nei paesi arabi che negli anni ’50 lottavano per la loro indipendenza, il filosofo scrive: “quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la loro violenza, è la nostra, rivoltata" (Sartre 1962, XLIX)


Come tanti racconti e romanzi otto e novecenteschi anche Libertà ci chiama insomma a riflettere sulla modernità come progetto storico incompiuto. Perché in fondo a tutti noi … avevano detto che c’era la libertà.

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