Di lui ha scritto Alberto Arbasino, che è il
“Cadavere in Cantina fra i più ingombranti di tutte le letterature, di tutti i paesi”
D'Annunzio e Mussolini (articolo del feb 2013, Un Vate per tutti e per nessuno)
Interventismo di D'Annunzio (discorso sullo scoglio di Quarto dei Mille il 5 maggio1915). Aveva 52 anni ma partecipò alla guerra con imprese clamorose (la beffa di Buccari, il volo su Vienna) e lanciò l'impresa della conquista della città di Fiume dal sett al dic 1919. __________________________________________________________________
LE CITTA' TERRIBILI, da MAIA (grande progetto delle
Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi , composto di tre libri Maia, Elettra e Alcyone)
Le Città Terribili fa parte del XVI capitolo di Maia o Lode alla vita (eroicamente intesa) , un lungo poema di oltre ottomila versi del 1903 diviso in 409 strofe di ventun versi ciascuna. Qui d'Annunzio non segue più gli schemi della metrica tradizionale e adotta il verso libero.
Il poema si apre con la celebrazione dell‘eroe greco dei poemi di Omero, Ulisse, corrispettivo mitico del superuomo (egli infatti nell’Odissea sfida, viaggiando, l’ignoto) e con l ‘annuncio della risurrezione del dio pagano Pan simbolo della vita cosmica e dell’esistenza attiva, gioiosa e sensuale. Nel corso del poema, vengono descritti tre viaggi: uno nella Grecia antica (viaggio che d ‘Annunzio effettivamente fece nel 1895 in compagnia di alcuni amici), luogo pagano per eccellenza; uno nella michelangiolesca Cappella Sistina (nella basilica di san Pietro, a Roma) e uno nel deserto, dove il poeta ritrova se stesso, solo con gli elementi naturali.
VEDI QUESTO PERCORSO SU "la città in letteratura: D'Annunzio"
Parole chiave della poetica dannunziana:
HOMO FABER
SLANCIO VITALISTICO
RICERCA DELL'ESTETISMO
PANISMO
IL VIVERE INIMITABILE
LA POESIA MOLTIPLICA E POTENZIA LA VITA
****************************************************
Alcyone
LE STIRPI CANORE
delle foreste,
altri dell'onde,
altri delle arene,
altri del Sole,
altri del vento Argeste.
Le mie parole
sono profonde
come la redici
terrene,
altre serene
come i firmamenti,
fervide come le vene
degli adolescenti,
ispide come i dumi,
confuse come i fumi
confusi,
nette come i cristalli
del monte,
tremule come le fronde
del pioppo,
tumide come la nerici
dei cavalli
a galoppo,
labili come i profumi
diffusi,
vergini come i calici
appena schiusi,
notturne come le rugiade
dei cieli,
funebri come gli asfodeli
dell'Ade,
pieghevoli come i salici
dello stagno,
tenui come i teli
che fra due steli
tesse il ragno.
(Metà luglio-metà agosto 1902)
Vedi anche :
La pioggia nel pineto letta da Carmelo Bene
Commento a "La pioggia nel pineto" di Paolo Gibellini nella sua introduzione ad ALCYONE, Einaudi:
"Una pioggia estiva sorprende il poeta e la donna che ha nome Ermione sul limitare d’una pineta non lontana da Marina di Pisa. Il suono della pioggia, prima rada poi fitta, varia di timbro secondo la densità del fogliame ch’essa percuote; alla voce della pioggia risponde il frinire delle cicale, che scema fino a spegnersi vinto dal croscio della pioggia crescente, sostituito da un lontano gracidio di rane. È questo il tema sonoro della lirica, valicante nell’invenzione della fantasia e del desiderio metamorfico la più prodigiosa mimesi del dato reale. La pineta percossa dalla pioggia è avvertita come un’orchestra arborea di strumenti diversi (tamerici, pini, mirti, ginestre, ginepri), ciascuno dotato d’una sua voce, cui s’accosta quella delle cicale, insieme corale sinfonia su cui si leva, nel crescendo della voce della pioggia e nel diminuendo della voce delle ciacel, l’a solo della rana. […] Ma al tema sonoro è intrecciato quello sensitivo, connesso all’arsura estiva, preludio implicito della lirica, in quanto destante il desiderio della pioggia, donde poi la gioia del refrigerio. Ed è il refrigerio della pioggia, comune alle piante e al poeta che con la sua compagna erra in ascolto per la pineta, ad assimilare alle creature vegetali gli umani, che della metamorfosi silvana avvertono l’ebbrezza: agli occhi del poeta, Ermione, fatta virente (v. 100), pare erompere, novella amadriade, d’una corteccia, e anch’egli si sente della medesima sostanza della pineta. L’isolato Taci incipitario, che impone un silenzio raccolto e una tensione uditiva (Ascolta, v. 8 e passim), segna già l’inizio di un’insolita vibrazione entro le creature umane che sentono la vita arborea estendersi al loro essere. Il panismo alcionio è preannunciato nel Fuoco [romanzo di d’Annunzio pubblicato nel 1900]: «So per prova quale effetto benefico venga a noi dal comunicare intensamente con una cosa terrena. Bisogna che la nostra anima divenga, a quando a quando, simile all’amadriade per sentir circolare in sé la fresca energia dell’albero convivente». […] Giunta alla sua acme, il sentimento panico, la Pioggia, circolare melodia qual è, si chiude musicalmente con la ripresa di un’intera frase iniziale: E piove su i nostri volti | silvani…, che nel suono protrae lo stato di ebbrezza panica goduto nelle strofe precedenti".
***************************************************************************
E' interessante il legame tra poesia e musica: esiste ad esempio un carteggio tra D'Annunzio e Debussy
e puoi ascoltare di Debussy Prelude a L'apres midi d'un faune oppure Jardins sous la pluie
***************************************************************************
E' interessante il legame tra poesia e musica: esiste ad esempio un carteggio tra D'Annunzio e Debussy
e puoi ascoltare di Debussy Prelude a L'apres midi d'un faune oppure Jardins sous la pluie
______________________________________________________
Sono molti i siti dedicati a D'Annunzio
questo molto valido:
http://www.treccani.it/enciclopedia/gabriele-d-annunzio_(Enciclopedia_dell'Italiano)/
E inoltre:
http://www.gabrieledannunzio.net/index.htm
http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/speciale_dannunzio.htm
http://www.letteratura.it/dannunzio/index.htm
UN GIRO AL VITTORIALE....
________________________________________________________________
E forse questa fu la sua ultima poesia, I cani del nulla.
Qui giacciono i miei cani, gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla
Questa poesia, datata ottobre 1935, è forse l’ultima scritta da D’Annunzio, ma sicuramente la più particolare. Essa è tragica nei suoi contenuti e per ciò che rappresenta per il poeta: è la confessione che tutto ciò che egli fece per esorcizzare il dolore di una vita senza identità, di una crisi universale, fu inutile. L’arte, la retorica, la bellezza altro non erano che una maschera calata sul nulla. Il testo è cupo, ricco di immagini funebri, quasi un epitaffio. La formula iniziale, tipica delle iscrizioni sepolcrali, celebra in apparenza la morte dei cani. Ma l’analogia tra questi animali e l’uomo è chiara ed evidente. Come queste bestie irrazionali sono destinate a rosicchiare i loro ossi, così come facevano in vita, per l’eternità, così noi uomini siamo destinati a succhiare il nostro dito per l’eternità. Un gesto istintivo, senza senso, inutile come la vita stessa. Una vita che continua dopo la morte nella ritualità delle azioni umane, o forse una morte iniziata già nella culla. Il definirsi del poeta “uomo da nulla” è una triste negazione di tutto ciò che aveva affermato precedentemente: la poesia non è in grado di innalzare l’uomo ad eletto, a privilegiato. Davanti alla morte l’uomo è come un cane. E la poesia può solo celebrare la morte e il nulla: la fistola di Pan è infatti costruita con ossa spolpate. Pan è il tutto, la morte è il tutto, dunque Pan è la morte, e non può paradossalmente essere il nulla. Il nichilismo dannunziano assume qui proporzioni impensabili.
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla
Questa poesia, datata ottobre 1935, è forse l’ultima scritta da D’Annunzio, ma sicuramente la più particolare. Essa è tragica nei suoi contenuti e per ciò che rappresenta per il poeta: è la confessione che tutto ciò che egli fece per esorcizzare il dolore di una vita senza identità, di una crisi universale, fu inutile. L’arte, la retorica, la bellezza altro non erano che una maschera calata sul nulla. Il testo è cupo, ricco di immagini funebri, quasi un epitaffio. La formula iniziale, tipica delle iscrizioni sepolcrali, celebra in apparenza la morte dei cani. Ma l’analogia tra questi animali e l’uomo è chiara ed evidente. Come queste bestie irrazionali sono destinate a rosicchiare i loro ossi, così come facevano in vita, per l’eternità, così noi uomini siamo destinati a succhiare il nostro dito per l’eternità. Un gesto istintivo, senza senso, inutile come la vita stessa. Una vita che continua dopo la morte nella ritualità delle azioni umane, o forse una morte iniziata già nella culla. Il definirsi del poeta “uomo da nulla” è una triste negazione di tutto ciò che aveva affermato precedentemente: la poesia non è in grado di innalzare l’uomo ad eletto, a privilegiato. Davanti alla morte l’uomo è come un cane. E la poesia può solo celebrare la morte e il nulla: la fistola di Pan è infatti costruita con ossa spolpate. Pan è il tutto, la morte è il tutto, dunque Pan è la morte, e non può paradossalmente essere il nulla. Il nichilismo dannunziano assume qui proporzioni impensabili.
Nessun commento:
Posta un commento