03/05/18

Il Paradiso

La terza cantica della Commedia racconta la parte conclusiva
 del  viaggio di Dante  nel regno degli angeli e beati. Esso è
il regno della luce, simbolo della beatitudine  e della
spiritualità ma anche della gloria e della potenza di Dio.
 Nell’ultimo canto  il protagonista raggiunge il fine ultimo
 della sua impresa,  ottenendo di poter contemplare
  la luce divina.
Il viaggio di Dante nell’aldilà si svolge nella settimana santa
 del 1300, tra il mezzogiorno  della domenica di Pasqua
e il mezzogiorno del Lunedì dell’Angelo.


Come l’Inferno e diversamente dal Purgatorio, il Paradiso
 è un regno eterno e la beatitudine  vissuta dalle anime
elette dura per sempre.
Questo regno ci appare non come è in realtà, ma come
 una sorta di grande sacra rappresentazione
 a uso e consumo di Dante. I beati lasciano
 infatti provvisoriamente l’Empireo in alto
per muovere incontro a Dante e Beatrice nel  loro
 passaggio per i nove cieli inferiori,  singolare
privilegio questo, concesso a Dante, creatura terrena
e portatrice di tutti i limiti fisici e morali
 che gli discendono dalla sua condizione umana, e che
 è strettamente connesso con la missione
 che Dio ha affidato al poeta di giovare agli uomini
 viventi narrando loro ciò che ha visto nell’aldilà.
 All’interno di ciascun gruppo, ogni beato gode di
 una visione di Dio tanto più perfetta quanto
 maggiori sono stati i suoi meriti individuali
sulla Terra. Nessun beato  tuttavia desidera una
 beatitudine maggiore in quanto l’amore divino fa
 sì che desiderino solo ciò che hanno  e ne siano
 pienamente appagati, ciascuna in egual misura.
 Un solo luogo
rimane sempre immobile e uguale a se stesso,
in quanto non tende verso nulla poiché già perfetto
 grazie alla divina Provvidenza e si tratta
 dell’Empireo, attorno al quale si muove il più
 veloce dei cieli, il Primo Mobile conferendo il
 movimento circolare agli altri cieli sottostanti.
È a questo luogo immobile, perfetto a cui tendono
gli uomini.
I temi della luce e della visività hanno un ruolo
 fondamentale nell’intera cantica.
Gia nel primo canto Dante, fissando Beatrice,
 dal Paradiso Terrestre sale verso la Sfera
del Fuoco . Egli intuisce
 che sta avvenendo in lui un cambiamento
importante, tanto che si paragona a Glauco,
 il pescatore che mangiò l’erba soprannaturale
 che lo innalzò dalla natura umana
 a quella divina. Dante avverte che si sta
trasformando,sta cominciando ad avvicinarsi
 a uno spirito puro e a liberarsi del peso del corpo
 fisico. L’essenza di questo passaggio
 soprannaturale è espressa dal neologismo
«trasumanar» (vv.70):
letteralmente andare  oltre l’umano.
Solo uscendo dai propri parametri terreni,
che sono anche dei limiti, si può entrare
veramente in sé, nella propria essenza divina
 e quindi incontrare il Creatore.
Dante dichiara di non poter esprimere a parole,
 in termini  adeguati questo passaggio
allo stato paradisiaco
 e si appella più volte a Dio affinché egli
 possa riuscire a descrivere ciò che ha visto.
La luce si fa sempre più intensa man mano che
 si passa dal Cielo delle Stelle Fisse,
al Primo Mobile e all’Empireo che è il cielo più
 vicino a Dio. E Dante comprende la corrispondenza
 tra finito e infinito, fra sistema dei cieli
 e gerarchia angelica;
Dio comprende in realtà in sé tutto l’universo,
 angeli compresi-
 Dante dall’Empireo vede ora il vero manifestarsi
 della luce che rende visibile il Creatore
 alla sua creatura, che solo nel contemplarlo
raggiunge la vera pace.
Intorno al poeta si trovano i beati disposti lungo
 i gradini della candida rosa in linea
circolare come in un anfiteatro romano. A questo
 punto Beatrice scompare per riprendere
il suo posto nella rosa dei beati; al suo posto c’è 
San Bernardo di Chiaravalle, simbolo  del momento
 mistico, che guiderà il poeta per quest’ultima parte
 del viaggio. San Bernardo esorta Dante a
contemplare Maria: egli pregherà che interceda per
 la sua visione finale.
 La Vergine accoglie la preghiera.
Da questo punto in poi la parola di Dante è poca
 cosa in confronto a ciò  che ha visto, e così il suo 
ricordo. Il poeta spiega il suo stato d’animo: è com
chi ha visto qualcosa in sogno, e al risveglio non
 ricorda che cosa sia, ma sente
 ancora tutta l’emozione che ha provato sognando.
 È come quando la neve si scioglie al sole, o come
 quando i responsi della Sibilla si disperdevano
 con le foglie su cui erano scritti. Dante prega Dio
 che gli conceda di rivedere un poco  di quel che ha
 visto e che la sua arte poetica sia in grado di 
descrivere almeno  una scintilla della sua gloria,
così che i lettori futuri possano comprenderla un po'-
Dante è perfettamente fuso con la sua volontà, 
è diventato parte dell’armonia celeste 
in movimento.
 In quest’istante tutto svanisce.
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Eugenio Montale, Dante ieri e oggi 

Discorso finale al Congresso per il settimo centenario della nascita di Dante,Firenze, 24 aprile 1965; poi in
 « Atti del Congresso Internazionale di Studi danteschi », vol. Il, Sansoni, Firenze 1966, pp. 315‑33.

In una celebrazione come questa, alla quale uomini insigni hanno portato il peso o la grazia della loro autorità, l'ultimo chiamato a parlare è sempre accolto e salutato da chi è addetto alla cronaca dell'avvenimento col rituale e consolatorio last but not least. Il che può essere del tutto vero, ma in altri casi. Non ritengo, infatti, che oggi, per me, sia necessario indorare la pillola perché qui, dinanzi a voi, io mi sento davvero last and least, ultimo senza circostanze attenuanti. E tuttavia mi trovo qui, ho accettato di parlare in quest'occasione anche se mi mancava il tempo e fors'anche la possibilità di cercare in me qualcosa che ponendosi in rapporto ad una mia singolare esperienza dantesca risultasse più che personale e perciò degno di essere notificato e discusso. 

Mi è sembrato, superata una prima perplessità, che se Dante è patrimonio universale (e tale è diventato anche se più di una volta egli abbia avvertito che parlava a pochi degni di ascoltarlo) al di là di un certo grado di approfondimento necessario, la sua voce oggi possa giungere a tutti come mai forse avvenne in altri tempi e come forse non sarà più possibile in futuro, così che il suo messaggio possa toccare il profano non meno che l'iniziato, e in modo probabilmente del tutto nuovo. La conoscenza di Dante, dopo che la gloria, lui Vivente, l'ha incoronato, è andata gradualmente tramontando fino al Seicento (il suo secolo nero) per risorgere poi con l'avvento del Romanticismo [---].  
Dante non è un poeta moderno (fatto ben noto anche ai critici e ai filosofi moderni), e che gli strumenti della cultura moderna non sono i più adatti a comprenderlo (fatto invece negato dai moderni filosofi che si credono particolarmente autorizzati ad alzare il velo, ma da che parte? Dalla parte della moderna ragione dispiegata). Il mio convincimento invece ‑ e lo do per quel che può valere ‑ è che Dante non è moderno il che non può impedirci di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo stranamente vicino a noi. Ma perché questo avvenga è pure necessario giungere ad un'altra conclusione: che noi non viviamo più in un'era moderna, ma in un nuovo medioevo d cui non possiamo ancora intravvedere i caratteri. 
Parlare dunque di un nuovo medioevo potrebbe sembrare un'ipotesi tutt'altro che pessimistica - esiste la possibilità di una barbarie del tutto nuova, di un camuffamento e stravolgimento della nozione stessa di civiltà e di cultura. Ma mi avvedo che debbo tornare al mio argomento e debbo chiedermi chi fosse Dante e che cosa egli possa rappresentare (è il mio tema) per uno scrittore d'oggi: non dico per un poeta d'oggi perché di fronte a Dante non esistono poeti. 
Per un lettore d'oggi ha inizio con la Vita Nuova il fatto che ormai il poeta ha cavalcato la tigre e non ne potrà più discendere. Il suo destino è a questo punto definitivamente segnato. [---] E poiché il viaggio nell'al di là occupa appena sette giorni ma la tela del poema deve estendersi per cento canti ‑ il numero perfetto - ecco la straordinaria eterogeneità delle figure che intervengono nelle tre cantiche e il colpo di genio (Curtius) dell'introduzione di personaggi viventi al tempo del viaggio dantesco, di amici e nemici del poeta accanto a eroi o a reprobi del mito o della storia antica o della storia della Chiesa, coi suoi beati, i suoi santi e i suoi angeli (non certo ultimi, questi, nelle alte gerarchie dei cieli e nella generale struttura del poema). Che cosa unifica una simile materia? Prima di tutto il senso allegorico del poema, evidentissimo nelle linee generali, ma oscuro in molti particolari e non così compatto da stringere davvicino tutti gli episodi della narrazione; nella quale spesso il velo allegorico si disfà per lasciar emergere soltanto i simboli, non tutti trasparenti. Qui l'insufficiente conoscenza che abbiamo dell'uomo Dante e della sua ideale biblioteca crea ostacoli che si direbbero insormontabili. Che Dante fosse un profondo teologo e insieme un filosofo particolarmente addottrinato è opinione che non trova tutti consenzienti. Che fosse un mistico, lui così razionale e così preso dai fatti e dagli interessi della vita terrestre, è stato pure posto in dubbio. Grande lettore e grande curioso egli avrebbe desunto il suo pensiero teologico non solo da San Tommaso ma da altre fonti, spesso fraintendendole. Si servi persino dell'eretico Sigieri di Brabante, riserbandogli poi un posto in Paradiso. Ma se questo fosse vero (né può deciderlo la mia incompetenza) fino a che punto può aiutarci la sua allegoria? A un lavoro analitico nel senso indicato, ma certo non esaustivo perché richiederebbe l'opera di una generazione di studiosi, si è dedicata Irma Brandeis nel suo libro The Ladder of Vision (1961) che è quanto di più suggestivo io abbia letto sull'argomento della scala che porta a Dio e che non per nulla si pone sotto il patronato di San Bonaventura «Poiché si deve salire la Scala di Giacobbe prima di discenderne, mettiamo il primo gradino più in basso che sia possibile, collocando l'intero del mondo sensibile dinanzi a noi come se fosse uno specchio attraverso il quale noi possiamo passare e giungere a Dio». ....Proprio fondandosi sulla lettera Miss Brandeis ci fa sentire quanto sia viva e concreta la presenza di Beatrice in tutto il poema e quanto siano strutturalmente necessarie le citazioni del Cantico dei Cantici, del Vangelo di San Matteo e del sesto libro dell'Eneide per rendere possibile e direi credibile l'apparizione di colei che vestita dei tre colori della fede, della speranza e della carità può sommuovere il poeta non dimentico del suo amore terrestre e fargli dire a Virgilio: « Men che dramma ‑ di sangue m'è rimaso che non tremi: ‑ conosco i segni dell'antica fiamma » (Purg. XXX, 46­48). Si fa tardi ed è ora che io chieda, non ai miei ascoltatori ma soprattutto a me stesso: che cosa significa l'opera di Dante per un poeta d'oggi? Esiste un suo insegnamento, un'eredità che noi possiamo raccogliere? Se consideriamo la Commedia come una summa e un'enciclopedia del sapere la tentazione di ripetere e di emulare il prodigio sarà sempre irresistibile; ma  le condizioni del successo non esistono più. Dante ha concluso il medioevo; dopo di lui ‑ abbruciata la Monarchia nel 1329 a Bologna e mutato il vento ‑ non saranno certo i Frezzi e i Palmieri a fermare la nostra attenzione. 1 poemi cavallereschi del Cinquecento sono grandi opere d'arte ma la loro enciclopedia non investe certo le ragioni ultime dell'uomo. Posso trascurare anche Milton, già neoclassico. Nell'unico poema ancora leggibile che ci ha lasciato Byron, il Don Giovanni, l'ironia e il senso del pastiche modellano ottave di vaga ispirazione « italiana ». Non ho dimenticato il Faust; ma l'esoterismo illuministico che lo pervade (non so in quale misura) fa del suo personaggio e del suo patto col diavolo un racconto che interessa più l'antropologo e il mitologo che il frequentatore del medioevo dantesco. Tra i romantici conoscitori di Dante furono certamente Shelley e Novalis, più musici che architetti. Giunti al nostro tempo non penserei al poema di Dáubler, Das Nordlicht, che è scritto in terza rima ma fa discendere la luce dal nord; e nemmeno all'Ulisse che ricalca motivi dall'Odissea sullo sfondo di una infernale, Irlanda quasi simbolica. Ma Joyce non guarda a Dante e non ne ha neppure l'immensa semplicità formale: la sua lettura richiede il soccorso dell'erudizione filologica e il poeta non crea un linguaggio, lo distrugge. Evidente è invece il tentativo di porre mano a un poema totale dell'esperienza storica dell'uomo nei cento e più Cantos di Ezra Pound, che non ha voluto però imitare le simmetrie e la rigorosa struttura della Commedia. I Cantos contengono tutto lo scibile di un mondo in disfacimento e in essi il senso del carpet domina su quello di una costruzione, di un avvicinamento a un centro. Se fosse però vero che l'argomento ultimo del poema dantesco fosse il cosiddetto dono di Costantino, allora potremmo forse trovare un parallelo nel tema poundiano dell'usura. In conclusione. Non sembra che in un mondo in cui l'enciclopedismo non forma più una sfera, ma un immenso coacervo di nozioni che hanno carattere provvisorio, si possa più ripetere in una forma ampiamente strutturata e con una inesauribile ricchezza di significati palesi e occulti l'itinerario di Dante. ..... Se dovessimo scegliere, preferiremmo il concentratissimo inferno post‑simbolista e quasi cubista di The Waste Land. Ma è inutile cercare altri esempi: Dante non può essere ripetuto. Fu giudicato quasi incomprensibile e semibarbaro pochi decenni dopo la sua morte, quando l'invenzione retorica e religiosa della poesia come dettato d'amore fu dimenticata. Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, a una civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressi­vamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l'ultimo miracolo della poesia mondiale. ....  Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore. E se è vero ch'egli volle essere poeta e nient'altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di noi.   
TEMI
1)  Luce; vedere; riflessione;

2) Dedica iniziale molto lunga e colta- poi S. Pietro dice a Dante che DEVE raccontare la sua esperienza. 

3) Ineffabilità (problema del non poter raccontare)

4) Trasumanar 

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Par 1,  46-72

[....]
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aquila sì non li s’affisse unquanco.                               48

E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,                              51

così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.                             54

Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.                               57

Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ferro che bogliente esce del foco;                          60

e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.                           63

Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.                                           66

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi.                         69

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti

a cui esperienza grazia serba.                                        72


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(Par. III, 10-18)

« Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d'i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid'io più facce a parlar pronte;
per ch'io dentro a l'error contrario corsi
a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte. » 

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(Par. XIV, 1-3)
« Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l'acqua in un ritondo vaso,
secondo ch'è percosso fuori o dentro » 


In pratica, in un vaso rotondo l'acqua si muove in cerchi concentrici, che si rimpiccioliscono via via dal bordo verso il centro, se il vaso è percosso sull'orlo, e dal centro verso l'esterno, se l'acqua è percossa al centro del vaso. A Dante viene in mente questo fenomeno, quando constata che il colloquio a cui ha appena assistito nel Cielo del Sole è avvenuto secondo le medesime modalità: prima parlava San Tommaso, e le parole venivano dal cerchio dei beati verso il centro; poi, non appena il Santo aveva taciuto, gli era subentrata Beatrice, le cui parole si muovevano dal centro in direzione della corona. Ha dell'incredibile la facilità con cui l'Alighieri attinge all'esperienza per descriverci anche le situazioni più complesse e più difficili da esprimere. In questo caso l'esperienza ci insegna il fenomeno della propagazione ondosa per cerchi concentrici, come sarà espresso dal matematico olandese Willebrord van Roijen Snell (1580-1626) nella sua omonima legge:
« Ogni punto percosso da un'onda diviene a sua volta sorgente di onde sferiche. »
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XXII PAR (vv. 145-153)

« Quindi m'apparve il temperar di Giove
tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.

L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci »


(Si pensi alla poesia X Agosto di Pascoli). 
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Par XXXIII  1-2
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,


76-78
o credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi. 



85-87
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna: 

133-145
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige, 135

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova; 138

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne. 141

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa, 144

l’amor che move il sole e l’altre stelle.





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