25/09/17

Alessandro Manzoni e il romanticismo italiano

Appunti su Illuminismo e Romanticismo
Gennaro Tedesco - 18-01-2014
Se l'Illuminismo sembra essere un tipico movimento intellettuale progressista, non dobbiamo credere che il Romanticismo sia necessariamente il contrario.
L'illuminismo nasce e si sviluppa per opera di intellettuali europei della fine del ' 700 in funzione del riconoscimento oggettivo, politico dello status di classe generale ed egemone della borghesia europea.
La genericità dello slogan rivoluzionario caratteristico della Rivoluzione francese , libertà, uguaglianza e fraternità, non è a caso. Questi tre valori così generici e vaghi servono ad aggregare il consenso intorno ad una borghesia che, altrimenti, farebbe fatica ad ottenerlo.
Una volta che, però, la spinta ideologica e rivoluzionaria della borghesia francese si è esaurita, ad esempio l'Italia e la Germania, o meglio, gli intellettuali borghesi di questi due Paesi, scoprono si di aver contribuito all'affermazione della borghesia , ma di quella francese. Di qui, nei confronti dell'Illuminismo, più che una delusione, una revisione di certi atteggiamenti critici ed ideologici che passa attraverso un ventaglio di posizioni diversificate: il Romanticismo.
Se in Francia per parecchi intellettuali borghesi (Chateaubriand o in Savoia De Maistre) il nuovo ricompattamento intorno al Romanticismo significa il ritorno all'Ancien Règime, alla tradizione legittimistica cattolica e l'accettazione quasi entusiastica della Restaurazione metternichiana, in Germania, ma soprattutto in Italia, il Romanticismo assume dimensioni e sviluppi del tutto diversi e progressivi.

In Italia il Romanticismo diviene un correttivo dell'Illuminismo.
I valori antifeudali ed antiaristocratici, utilitaristici, della Rivoluzione francese non vengono perduti, anzi rafforzati dalla scoperta romantica del popolo nella sua dimensione originaria e nazionale. Ed è proprio il clima della Restaurazione metternichiana che rende sempre attuali in Italia quei valori eversivi della Rivoluzione francese corretti da un ritrovato spirito nazionale e quindi antiaustriaco della nostra intellettualità borghese. Nell'Italia della Restaurazione lo spirito rivoluzionario borghese della Rivoluzione francese diviene patrimonio del movimento nazionale borghese antiaustriaco.
La borghesia italiana comincia ad acquisire i tratti di una vera e propria borghesia proprio nel momento in cui rivendica la propria identità nazionale contro l'Austria nel periodo della Restaurazione metternichiana .
Un passo decisivo verso la ricerca di uno status ricapitolativo della situazione della borghesia italiana nel periodo del Romanticismo è dato dai " Promessi Sposi " di A. Manzoni. Nel romanzo storico di Manzoni troviamo i tratti distintivi dell'Illuminismo e del Romanticismo italiano: ricerca di un nuovo "rivoluzionario " linguaggio che sfocia nell'introduzione della lingua dell'uso contro l'accademismo linguistico, conseguente individuazione di un nuovo pubblico in senso lato borghese , formazione di un'opinione pubblica italiana che nella coincidenza della novità linguistica con i contenuti storico-nazionali (rifiuto istintivo dell'occupazione spagnola dell'Italia del '600, protagonismo sociale dei così detti " umili ", realismo) più facilmente e per la prima volta trova se stessa.


Hayez, ritratto di A. Manzoni con tabacchiera

MANZONI: IL ROMANZO E LA STORIA 

ALESSANDRO MANZONI: VEDI I SAGGI PROPOSTI A QUESTO LINK


 (Le illustrazioni di Francesco Gonin...)

  
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di 
monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a 

un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda
ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in
vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di  fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di
nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo
l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva
perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda.
Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi
nell'orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute. Per una di queste stradicciole,.....................................................

Leggi il saggio di Umberto Eco "Panoramica con carrellata" 
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CAP VIII con annotazioni musicali


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IL SUGO DELLA STORIA (EZIO RAIMONDI)


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MANZONI DA LEGGERE (pdf ADI)

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STORIA DELLA COLONNA INFAME:  (tratto da Internet Culturale)
Scritta come un capitolo (il V della parte IV) del Fermo e Lucia, dove avrebbe dovuto illustrare, dopo gli esempi tolti al Ripamonti dell’“iniquo furore” della folla contro gli untori, le “carneficine più lente, più studiate, più inique” dei ministri della Giustizia, la Storia della colonna infame ne fu poi staccata, perchè esorbitante dal racconto principale, e destinata a formare un’“appendice” del romanzo.
 Ma i tempi stretti in cui venne a trovarsi nell’estate del ’27, per concludere la stampa già tanto protratta dei Promessi Sposi, gli impedirono di dar fuori anche la Colonna infame, sicchè alla fine del cap. XXXII dichiarava ai lettori di rimandarla a “un altro scritto”: espressione che doveva favorire l’attesa, poi andata delusa, di un secondo romanzo storico. Intanto aveva provveduto a correggere la copia che aveva fatto trarre dalle carte del Fermo e dalla loro rielaborazione autonoma, e si potrebbe supporre persino che intorno al ’28 pensasse di stampare lo scritto sul processo agli untori in un volumetto a sé. Ma, quali fossero le ragioni – principale la necessità di nuove letture e di nuove ricerche – non se ne fece nulla, e la Storia della Colonna infame sarebbe apparsa soltanto come appendice (secondo progetto) della nuova edizione dei Promessi Sposi, lavorandovi il Manzoni fino agli ultimi mesi del ’42.
Oltre al De Peste del Ripamonti, fonte principale dell’informazione manzoniana fu il verbale del processo: non l’originale, perduto, ma l’estratto che ne dà una rara edizione secentesca della parte defensionale dell’avvocato del Padilla, come pure una copia manoscritta (di cui il Manzoni venne a conoscenza più tardi) già appartenuta al Verri e che fu da lui postillata nei margini. Sia della stampa secentesca, sia del manoscritto Verri il Manzoni fece fare una trascrizione accurata per suo uso (in tre volumi legati in pelle). Una terza copia, settecentesca, non del tutto conforme ai documenti precedenti, dovette venirgli alle mani successivamente e anche di essa si servì per il lavoro della nuova stesura della Storia.
.Giuseppe Ripamonti, De peste..., Mediolani, 1641
Giuseppe Ripamonti, De peste..., Mediolani, 1641.
Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.

Alessandro Tadino, Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste...
Alessandro Tadino, Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste...,
Milano 1648. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.




LEONARDO SCIASCIA, LA STREGA E IL CAPITANO
… nel giro di tre settimane ne è venuto fuori questo racconto. Come un sommesso omaggio ad Alessandro Manzoni, nell’anno in cui clamorosamente si celebra il secondo centenario della sua nascita.
Così Leonardo Sciascia nella Nota che chiude “La strega e il capitano”, libro pubblicato nel 1986. Lo spunto per la composizione di questo testo, che ha tutta l’aria e lo stile di un documento di ricostruzione storica, arriva dal capitolo trentunesimo de “I promessi sposi”. Qui Manzoni cita il protofisico Lodovico Settala, professore di Medicina ed autore di numerose opere reputatissime. I meriti del Settala però non impedirono al popolo milanese di vedere in lui una specie di untore:
“Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste…”. Manzoni spiega anche che Settala riuscì a riconquistare “lode di sapiente” quando, con suo “deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco”.
Ed è proprio alla “povera infelice sventurata” strega che Sciascia dedica il suo racconto. Caterina Medici, questo il suo nome, strangolata ed arsa in piazza il 4 marzo 1617. La volontà di chiarezza e la ricerca della verità storica sono alla base del libro dello scrittore siciliano che, a differenza del Manzoni, ricostruisce nei dettagli la vicenda processuale di Caterina evitando di omettere i nomi dei prestigiosi personaggi coinvolti. Un’omertà manzoniana, e non solo, spiegata dallo stesso Sciascia come una sorta di deferenza nei confronti di famiglie influenti e troppo prestigiose per essere associate, seppur a distanza di secoli, a vicende tanto oscure ed ambigue.
Caterina Medici era la fantesca del senatore Luigi Melzi. Uomo potente, circondato da un nugolo di figli e, all’epoca dei fatti, poco più che sessantenne. Il senatore Melzi soffriva di strani dolori di stomaco, inspiegabili al gruppo di medici a cui si era rivolto. Malesseri che né il Settala (lo stesso di cui parla Manzoni), né il Clerici, né il Selvatico (altri due illustri uomini di scienza consultati dal senatore) riuscirono a giustificare e a guarire.
I primi sospetti di stregoneria nei confronti di Caterina iniziano a prendere forma quando in casa Melzi giunge il capitano Vacallo (30 novembre 1616). Costui, come folgorato da non si sa quali intuizioni oltre che suggestionato da una situazione personale risalente a qualche anno prima, inizia a congetturare che i dolori del senatore possano essere ricondotti alla presenza di Caterina. Ne parla prima con Gerolamo Melzi, figlio di Luigi, e poco dopo con il malato in persona. Le suggestive ipotesi di Vacallo, confermate da un certo Cavagnolo, nell’arco di pochissimo tempo, divengono accuse. Caterina viene denunciata come “strega professa” il 26 dicembre 1616. La donna, infatti, aveva confessato e confermato di praticare l’arte della stregoneria: Caterina Medici credeva di essere una strega o, quanto meno, aveva fede nelle pratiche di stregoneria. E forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori: poiché, in fatto di stregoneria,   l’inquisitore e l’inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell’uguale credenza
Caterina confessa di aver applicato dei malefici al senatore affinché lui si innamorasse di lei e di averli applicati con l’aiuto del diavolo. La donna viene interrogata spesso e da personaggi diversi ma l’esito non cambia: la scienza medica nulla poteva nella diagnosi del male di Luigi Melzi non per deficienza scientifica ma perché la medicina si annulla al cospetto dell’ostacolo diabolico. Un paradosso su cui Sciascia si sofferma in vari momenti e con sottilissima ironia.
Il processo di Caterina si svolge in tempi abbastanza rapidi. Accuse, domande, chiarimenti, confessioni. Caterina parla e spiega agli uomini di giustizia quello che probabilmente spera essi vogliono sentire. La tortura non fa che ampliare la sua disperazione. L’intento del Capitano di Giustizia è quello di giungere alla verità, con l’appoggio immancabile della Curia. Ma la tortura non porta ad alcuna verità: “è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla”, scrive Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura”. Caterina fa altri nomi, probabilmente inventa situazioni e si auto accusa di malefici, malanni e morti di cui non ha alcuna responsabilità. Perché Caterina spera nel perdono e nella clemenza dei suoi aguzzini che, invece, fanno di lei una creatura da punire ed annientare affinché possa essere da monito e minaccia.
Con la morte di Caterina, dunque, la Giustizia aveva trionfalmente concluso il suo corso, i medici avevano trovato un capro espiatorio utile a coprire la loro inettitudine e la città di Milano aveva cancellato una delle tante presenze diaboliche che la infestavano.
Un libro breve, “La strega e il capitano”. Una vicenda ricostruita con attenzione e pervasa da costante spirito di giustizia. Sciascia ha voluto restituire alla storia di Caterina un senso di verità e dignità evidenziando, per contrasto, la povertà culturale ed umana di individui apparentemente preparati ed eruditi. Anche se si tratta di una vicenda minore, di un episodio dimenticato e sepolto dai secoli, la vicenda della Medici è emblematica di una fase storica molto importante e spesso trascurata. Un libro pieno di citazioni, di frasi estrapolate da documenti risalenti al XVII secolo, di riflessioni sul mondo della giustizia civile e religiosa. E Sciascia non manca, in alcuni passaggi, di creare un parallelismo tra il passato e il presente quasi a voler sottolineare quanto spesso gli errori compiuti non siano serviti a rendere il tempo attuale migliore o più umano.


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Estratto da TOMMASO GIARTOSIO 


Nel nostro Paese storicamente così frammentato la letteratura ha svolto per secoli un ruolo politico che forse non ha paragoni in Europa, di simbolo e testimone primario di un’identità fantasma. La storia letteraria è stata a lungo la nostra epica nazionale. I Promessi sposi sono un’articolazione cruciale di questa italianissima concezione politico-letteraria della tradizione. Se la lingua nazionale fonda la legittimità dello stato-nazione, quest’opera traccia appunto un modello linguistico deliberatamente esemplare, un protocollo per la lingua dell’Italia unita. Se la letteratura conferisce a una nazione pari dignità nel consesso delle altre, questo romanzo vuole appunto riportare la letteratura italiana nell’alveo delle letterature moderne, e in particolare del grande romanzo europeo. Si tratta insomma di un progetto letterario che si inserisce pienamente nel Risorgimento (benché certo non si esaurisca in esso), come un proclama o una costituzione.
Risorgimentale è anche la scelta di proporre il Seicento come archeologia della Restaurazione. Ma mentre i romanzi storici di D’Azeglio o Guerrazzi avevano anche un contenuto distintamente storico-politico (collocato nel passato ma anche, per allusione, nel presente ottocentesco), I promessi sposi raccontano una vicenda minima che solo per caso incrocia la Storia. Eppure questo matrimonio ostacolato e poi trionfante, questa riproduzione ottenuta a caro prezzo, sono profondamente storico-politici – non tanto nell’ottica della microstoria, quanto proprio nella prospettiva dell’unificazione e dell’indipendenza. Pongono infatti all’ordine del giorno la necessità di una “vita buona” che dia “buone nascite” su cui fondare una “buona nazione”. Non a caso il romanzo tematizza, dell’eros, solo il versante istituzionale, il matrimonio: un apparente formalismo praticato (l’osservazione è di Arbasino) addirittura da Don Rodrigo, che si ingarbuglia a sventare le nozze mentre potrebbe semplicemente far rapire Lucia, sposata o meno.[1] Ma questa jouissance libertina, eludendo la questione delle fondamenta sociali, farebbe dei Promessi sposi un romanzo gotico e non patriottico. Insomma, a essere “politica” negli Sposi non è solo l’ambientazione storico-sociale, ma soprattutto la vicenda privata: un tema biopolitico che va riferito al cattolicesimo di Manzoni. È proprio quando nasce la Patria che occorre puntare i riflettori sulla Famiglia.
Del resto il tema della famiglia fa da filo conduttore di tutta la narrativa italiana dell’Ottocento. Le tappe iniziali, fortemente critiche verso il progetto famigliare, sono la Vita di Vittorio Alfieri (fuga dall’oppressione domestica, vagabondaggi solitari, infine costruzione di un sodalizio amoroso che non ha nulla del “nido”) e le Ultime lettere di Jacopo Ortis (dove al ramingo protagonista si contrappone la famiglia di Teresa e Odoardo, viziata fin dalla sua origine, e non c’è neppure il lieto fine di un legame anticonvenzionale). Anche Leopardi, Nievo, Tommaseo si situano in vario modo entro questa prospettiva romantica che ridimensiona la sovrapposizione (di matrice borghese) tra eros, famiglia e procreazione. Al capo opposto, a fine secolo – non a caso dopo l’unificazione, cioè con la creazione di una casa comune – la famiglia è invece divenuta un nucleo indiscutibile, che si tratti di un luogo di rivalità (Mastro-Don GesualdoI VicerèL’eredità Ferramonti) o di un rifugio fragile ma prezioso (I MalavogliaCuoreMyricae), o di entrambi (Piccolo mondo antico). Ho certo tralasciato testi potentemente eccentrici, in primo luogo Pinocchio; ma entro questo arco storico il romanzo manzoniano sembra davvero essere il punto in cui si completa e si legittima l’affermazione della “famiglia coniugale intima”, caratterizzata da una struttura nucleare e da un diminuito potere patriarcale, e borghese nello spirito se non sempre nella realtà (fu abbracciata anche da molti nobili). (...) 
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Pasolini sui Promessi Sposi
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Pessimismo manzoniano: 

Dall' Adelchi



“loco a gentile, / ad innocente opra non v’è: non 

resta / che far torto, o patirlo”
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Massimo Raffaeli sulla Colonna Infame (ottobre 2023, il Manifesto)

Non sono trentotto ma trentanove i capitoli de I Promessi Sposi a patto di integrarvi, come il lettore non è abituato a fare ma come volle viceversa la ne varietur del romanzo (1840-’42), La storia della Colonna Infame, illustrata pari ai precedenti capitoli dalle vignette di Francesco Gonin. È noto come dal Fermo e Lucia, nei capitoli sulla guerra del Monferrato, estrema propaggine di quella detta dei Trent’anni, già esorbitasse la documentazione su quanto ne fu, nel Nord Italia e a Milano specialmente, la massima conseguenza e dunque la mortifera pandemia di peste bubbonica. Studiando la cronaca patria del Ripamonti, le pagine del grande Ludovico Antonio Muratori e non pochi altri incartamenti, il Manzoni si era fatalmente imbattuto nei processi ai presunti «untori», cioè spargitori dolosi del morbo, in un clima che a furor di popolo, e oggi lo diremmo complottista, favoriva la consuetudine inquisitoria e la pratica della tortura. L’occasione gli era data dal fascicolo riguardante Guglielmo Piazza, commissario di sanità alla Vetra presso porta Ticinese, il quale, sottoposto a tortura, aveva accusato il barbiere Gian Giacomo Mora, rivalsosi a sua volta su altri innocenti nel delirio cagionato in ognuno dallo strazio psicofisico.

Manzoni ne aveva ricevuto la materia e scandita la narrazione, collocandola in Appendice, secondo la poetica sottesa al Fermo e Lucia ma presto ipotecata ai suoi stessi occhi dall’utilizzo ancora eclettico della lingua e dalle eccessive concessioni al romanzesco (e cioè alle seduzioni della pura narrativa) che lo indurranno a rifare da capo il romanzo. Come chiarisce limpidamente, introducendola, la curatrice Carla Riccardi, che già nel 2002 ne diede l’edizione critica per il Centro Nazionale di Studi Manzoniani, nella seconda e definitiva redazione della Storia della Colonna Infame (con un saggio di Giuseppe Ungaretti, Mondadori «Oscar», pp. 195, € 10,00) Manzoni da un lato le riconosce pari dignità collocandola dopo il capitolo XXXVIII e facendone il vero explicit del romanzo, dall’altro ne muta radicalmente il taglio e lo stile rispetto alla prima laddove, scrive Riccardi, il venir meno della linearità narrativa significa avere «definitivamente eliminato l’invenzione, individuata come il nemico da combattere, tenendosi stretti ai dati storici e riservando a sé l’interpretazione di questi».

È il Manzoni che, conclusi I Promessi Sposi, sta abiurando dalla forma-romanzo (il celebre discorso Del romanzo storico di fatto annuncia una ritrattazione) e viene convincendosi della necessità che dominio esclusivo della letteratura debba essere il vero, ciò che altrove pure definisce «un vero veduto dalla mente», intanto riaffermando, lui nipote di Cesare Beccaria, la radice di un illuminismo ereditario. (E fra gli esiti più cospicui dell’attuale centocinquantenario, vanno annoverati sia la recente Storia della Colonna Infame – Ronzani Editore, pp. 222, € 20.00 – con le illustrazioni del Gonin e un saggio ad hoc di Salvatore Silvano Nigro, sia il bel profilo di Giulia Raboni nel volume collettaneo Manzoni – Carocci, pp. 319, € 29,00 – a cura di un’altra fuoriclasse della critica manzoniana, Paola Italia: a riprova del ritorno di interesse per un’opera che quando comparve «tanto grande era l’aspettazione e altrettanto fu rumorosa la caduta» come dovette riconoscere nel 1852 un amico dell’autore, Giuseppe Rovani, in La mente di Alessandro Manzoni – ora Scheiwiller 1984).

La frantumazione narrativa e la divisione in capitoli della Storia, nel secondo formato, ne attestano la natura saggistica e, prima ancora, meditativa. Stavolta Manzoni apre affrontando di petto la bibliografia sull’argomento, per discuterne in primo luogo proprio il versante illuminista rappresentato dalle Osservazioni sulla tortura (1804, postumo) di Pietro Verri che legge la vicenda degli untori quale frutto oscurantista della ignoranza e del barbarico utilizzo dei tormenti.

Manzoni dà un credito generico alla tesi del Verri ma non può appagarsene e subito la trascende. Quanto alla isteria popolare che invoca dei capri espiatori e quanto alla vocazione inquisitoria dei giudici, egli dice di una «orrenda vittoria dell’errore contro la verità», di un «delitto che non c’era ma che si voleva», infine di torbide e «accecanti» passioni. Vale a dire che introduce la nozione cristiana di colpa e, prima ancora, di coscienza che nessun contesto oscurantista per lui potrebbe mai rimuovere o cancellare perché crede nella eterna esistenza, anche nei tempi più bui e calamitosi, del libero arbitrio. E quando arriva a domandarsi se il delatore sotto tortura sia vittima o meno, così si risponde: «Costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche colpevole; i patimenti e i terrori dell’innocente sono una gran cosa, hanno di gran virtù, ma non quella di mutar la legge eterna, di far che la calunnia cessi di essere colpa». Risposta bene intesa dai non molti manzoniani dichiarati del nostro Novecento e fra questi senz’altro Riccardo Bacchelli che lo leggeva nel connubio di razionalismo volterriano e moralismo giansenista però alla lettera infrenato nella teologia cattolica, sinonimo di una pietà che non implica indulgenza. (Molto più incline alla formazione illuminista è invece un film del 1972, La colonna infame, sceneggiato da Vasco Pratolini e girato da un poeta che dall’illuminismo lombardo pure discendeva, Nelo Risi, nel cui cast figurano tra gli altri Vittorio Caprioli nella parte del Piazza, Helmut Berger in quella del Capitano di giustizia per tacere il cameo di un indimenticabile Salvo Randone nelle vesti del protofisico Settala: l’editore Cappelli nel ’73 ne pubblicò la sceneggiatura insieme con i saggi di Gianni Scalia e di Leonardo Sciascia, altro manzoniano onorario e curatore a sua volta nel 1981, per Sellerio, di un’edizione tascabile della Storia).

Ma viene tuttavia da chiedersi: al presente, qui-e-ora, in un secolo di orrori che non paiono aver termine qual è il senso delle «passioni» che Manzoni vedeva perdurare e decomporsi oltre ogni rimedio illuminista? Una risposta arriva da chi ha letto nel profondo I Promessi Sposi senza ignorarne l’apparente appendice: Primo Levi torna infatti al Manzoni nelle pagine centrali del proprio testamento, I sommersi e i salvati (1986), quando enuclea la metafora della «zona grigia» alludendo allo spazio ambiguo e indeterminato che sempre si interpone, al rapporto che davvero intercorre, fra la vittima e il carnefice. Ed è lì che Levi ricorda, pari a una verità antropologica, il passo in cui Manzoni afferma che colui che fa il male non soltanto è responsabile del male che sta facendo all’altro ma anche del male che l’altro è indotto a fare da lui. E in effetti a un lettore di oggi, nell’apprendere i costumi degli inquisitori nonché le delazioni o i delitti di quegli imputati, può venire in mente un libro che parrebbe lontano anni luce, la classica monografia di Christopher Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e ‘soluzione finale’ in Polonia (Einaudi, nuova edizione 1999): perché anche i soldati del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca, i quali uccisero quarantamila persone e ne deportarono almeno altrettante, non erano affatto dei succubi della propaganda né degli assassini di professione ma erano normali operai, artigiani, impiegati, come un tempo lo furono il Capitano di giustizia, il Piazza e il Mora: anche a costoro, dopo tutto, restava una «coscienza» da poter ascoltare.


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