06/04/18

Dino Campana (O DELLA CHIMERA)

SITI  a lui dedicati:
http://www.dinocampana.it/

http://www.campanadino.it/

Una efficace sintesi dall'enciclopedia Treccani




Da Letteratura.it:
Dino Campana è poeta visionario, allucinato, pazzo, orfico, vagabondo, mediterraneo. Così è stato definito spesso dai critici letterari, anche se nessuna di queste definizioni, perché limitano in un ambito troppo angusto la materia dell’arte, è in grado di illuminare chiaramente la vita e la poesia di questo autore vissuto a cavallo fra i due secoli.Campana non si lascia comprendere a pieno né classificare. La sua poesia è moderna ma tuttavia piena di richiami a D’ Annunzio, a Leopardi e ai classici.La sua lingua poetica sconvolge l’ordine sintattico in vari modi, anche mescolando lingue diverse, producendo valanghe di versi la cui coerenza sintattica si ottiene solo sacrificando ogni plausibile significato. Ma Campana è attentissimo conoscitore delle regole che sconvolge, il culto che nutre per la perfezione filologica è testimoniato dalla tragicità con cui visse la perdita del suo manoscritto, Il più lungo giorno,che dovette ricostruire a memoria per formare la sua opera, i Canti Orfici. La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla del caso Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del poeta maledetto. La follia però per questo poeta, non è un presupposto della sua poesia, ma semmai un punto d’approdo, è la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato la morte del dio. 
Campana affermava di voler “ nel paesaggio collocare dei ricordi” e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.


"...è in lui, precisamente, che tutta la possibile tensione espressionistica del nostro Novecento ritrova il suo autentico protagonista". Edoardo Sanguineti

Il caso del cagnolino

POETA NOTTURNO
La notte sta in apertura del libro di Campana: lampeggiante segnale biografico-simbolico. Notturni, subito dopo, è l’insegna della seconda sezione dei Canti Orfici. Non basta: nella prima pagina di questo comparto, precisamente ai versi 17-18 de La Chimera, Campana ha fissato una sorta di proprio identikit:
io poeta notturno/ vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Ora si dà il caso che in questa espressione, certamente essenziale come dichiarazione di poetica, ricorrano due termini che figurano già nel proemio, v. 42., del De rerum natura di Lucrezio, là dove il poeta annuncia la propria teoresi scientifica e filosofica epicurea, quindi in un passo anche esso intenzionalmente investito di determinazione programmatica. Qui scrive Lucrezio all’amico Memmio come e perché egli sia stato indotto a «noctes vigilare serenas». 


 L'invetriata

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente,
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente. 


In un momento
 In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
 
P.S. E così dimenticammo le rose.
 
(per Sibilla Aleramo)

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SCIROCCO (Bologna) 

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Fantasia su un quadro  di Ardengo Soffici

Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D'America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D'America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé
.
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La giornata di un nevrastenico
(Bologna)


La vecchia città dotta e sacerdotale era avvolta di nebbie nel pomeriggio di dicembre. I colli trasparivano più lontani sulla pianura percossa di strepiti. 
Sulla linea ferroviaria si scorgeva vicino, in uno scorcio falso di luce plumbea lo scalo delle merci. 
Lungo la linea di circonvallazione passavano pomposamente sfumate figure femminili, avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamente romantici, avvicinandosi a piccole scosse automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volatili di bassa corte.
Dei colpi sordi, dei fischi dallo scalo accentuavano la monotonia diffusa nell’aria.
Il vapore delle macchine si confondeva colla nebbia: i fili si appendevano e si riappendevano ai grappoli di campanelle dei pali telegrafici che si susseguivano automaticamente.
***
Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. 
Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio. 
Delle ragazze tutte piccole, tutte scure, artifiziosamente avvolte nella sciarpa traversano saltellando le vie, rendendole più vuote ancora. 
E nell’incubo della nebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un tratto tanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere, che vadano a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno.
***
Numerose le studentesse sotto i portici. Si vede subito che siamo in un centro di cultura. 
Guardano a volte coll’ingenuità di Ofelia, tre a tre, parlando a fior di labbra. 
Formano sotto i portici il corteo pallido e interessante delle grazie moderne, le mie colleghe, che vanno a lezione! 
Non hanno l’arduo sorriso d’Annunziano palpitante nella gola come le letterate, ma più raro un sorriso e più severo, intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate.
***
(Caffè) E’ passata la Russa. La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. 
E’ venuta ed è passata portando il fiore e la piaga delle sue labbra. 
Con un passo elegante, troppo semplice e troppo conscio è passata. 
La neve seguita a cadere e si scioglie indifferente nel fango della via. 
La sartina e l’avvocato ridono e chiacchierano. 
I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite. 
Tutto mi è indifferente. 
Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città. 
Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. 
Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo 
bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora.

C’è uno specchio avanti a me e l’orologio batte: la luce mi giunge dai portici a traverso le cortine della vetrata.
Prendo la penna: Scrivo: cosa, non so: ho il sangue alle dita: scrivo: «l’amante nella penombra si aggraffia al viso dell’amante per scarnificare il suo sogno..... ecc. ». 
(Ancora per la via ) Tristezza acuta. Mi ferma il mio antico compagno di scuola, 
già allora bravissimo ed ora di già in belle lettere guercio professor purulento: 
mi tenta, mi confessa con un sorriso sempre più lercio. 
Conclude: potresti provare a mandare qualcosa all’Amore Illustrato (Via). 
Ecco inevitabile sotto i portici lo sciame aereoplanante delle signorine intellettuali, che ride e fa glu glu mostrando i denti, in caccia, sembra, di tutti i nemici della scienza e della cultura, che va a frangere ai piedi della cattedra. 
Già è l’ora! vado a infangarmi in mezzo alla via: l’ora che l’illustre somiero rampa con il suo carico di nera scienza catalogale.
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L'INTERO TESTO DEI CANTI ORFICI SI TROVA QUI

SebastianoVassalli La notte della cometa 



Carmelo Bene legge In un momento 

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Eugenio Montale: Sulla poesia di Campana


 Gianfranco Contini su Campana    


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Su Sibilla Aleramo
E’ molto vecchia, non somiglia più a Rina né a ciò che è stata fra i due secoli che l’hanno ospitata come inquilina inquieta, da quando lasciò Porto Civitanova dove si era trasferita con la famiglia nel 1881 (suo padre là dirigeva la filiale milanese di una vetreria). Collabora, in quegli anni, con articoli e cronache mondane, ad alcuni giornali regionali (“L’Ordine” di Ancona e “La sentinella” di Osimo). Nel 1892 subisce una violenza sessuale da un impiegato della fabbrica paterna, Ulderico Pierangeli, che sposerà nel gennaio del 1893; nel 1895 nascerà il figlio Walter, figura che occupa molte pagine del diario e che Sibilla visiterà spesso ad Ancona dove, medico, viveva. Solo nel ’33 lo rivedrà dopo aver abbandonato, sulla fine del febbraio 1902, la casa del marito. Ancona 5 novembre 1947: “Ritrovo mio figlio dopo una decina d’anni che non ci si rivedeva.”; in treno fra San Bendetto ed Ancona, 17 maggio 1949: “Non ero più passata dopo la guerra per questa linea. Civitanova è stata molto battuta nella zona presso la stazione, ove mio padre eresse, più di sessanta anni fa, la fabbrica di vetro ora distrutta […]”; Ancona, 21 settembre, mattino: ”Impressione profonda ieri percorrendo nella macchina di mio figlio il quartiere di rovine sulla collina a piè del Duomo. Ancona ha perduto il settanta per cento sotto i bombardamenti. […] Dinanzi al panorama del mare, in una luce raggiante tutti i poveri relitti ai miei piedi di case che furono di misera gente parevano una sinistra allucinazione.”; 1959, Ancona 29 maggio, mattino: ”Arrivata ieri sera alle sette, alla stazione c’era mio figlio con il suo dolce sorriso […]”.Quando avvia ilDiario di una donna (1945, Roma, 21 gennaio, sera ) ha sessantanove anni e, dinanzi a lei, “lo spettro della perfetta indigenza”.
Tutto il suo sentiero è costellato di necessità da quando lasciò “[…] la casa maritale (senza portar via nulla!)” L’orologio di Sibilla batte il tempo dei giorni e lascia che quegli istanti cadano senza rimedio, irripetibili, come le ore di tutti. Il suo mondo l’ha preceduta pian piano e lei ha paura perché sente che si compie l’ora del distacco verso cui si approssima nell’umiltà severa di una dignità che illumina lo spazio bianco del silenzio e della pagina.
“Ultimi sonni”, potrei intitolare questi miei sonni di dodici, quattordici ore la notte senza risveglio. Anche di giorno del resto terrei sempre gli occhi chiusi. Deriva dal mio enorme stato di debolezza, neppure il braccio ho più la forza di alzare. Fosse, fosse la fine!” E’ il 29 dicembre del 1959, Sibilla Aleramo ha ottantatré anni (Rina Faccio, il suo vero nome, era nata ad Alessandria nel 1876) e morirà il 13 gennaio del 1960 dopo le ultime parole, sul Diario (Feltrinelli), tracciate il giorno 2. Su quei battiti estremi si chiude l’esistenza di “una donna” (parafrasando il suo libro più importante del 1906), a Roma, nella clinica Villa Speranza, alla Pineta Sacchetti, dove era entrata il 19 dicembre, alle ore 19. Scende verso la soglia e scompaiono piano tutti gli anni fin lì, i nomi, il mondo attraversato, la storia; i libri, gli amori (Giovanni Cena, Cardarelli, Papini, Dino Campana, Quasimodo, fino all’ultimo, il poeta Franco Matacotta – nato a Fermo nel 1916 e spentosi a Nervi nel 1978 – quando lei aveva già sessant’anni e Franco venti), si annulla la puntuale cronologia che scandisce le età del tempo che l’hanno vista viva.

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