21/02/21

ITALO CALVINO (o della VISIBILITA')

Per Calvino bisogna parlare di un narratore di scritture diversissime, tra il genere realistico, quello fantastico e lo sperimentale; egli è inoltre stato  un formidabile saggista e intellettuale attento agli avvenimenti mondiali, che intervenne spesso sui giornali, insieme a Pasolini. Un uomo dalla cultura sia umanistica che scientifica. 



1) Il narratore realistico: Il sentiero dei nidi di ragno
Il sentiero dei nidi di ragno è il primo romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1947, cioè quando l’autore aveva 24 anni e già collaborava con la casa editrice Einaudi occupandosi dell’ufficio stampa e della pubblicità. E' un romanzo di impianto neorealista (la corrente che dominò il dopoguerra, tra letteratura e cinema), ma l’approccio dell’autore alla Storia è del tutto nuovo: il punto di vista della narrazione è quello d’un bambino, una volontaria regressione che permette di raccontare la guerra partigiana da una lontananza, da uno straniamento.


Il personaggio Kim nel cap 9 riflette su cosa sia la storia: 
"Io invece cammino per un bosco di larici e ogni mio passo è storia; io penso: ti amo, Adriana, e questo è storia, ha grandi conseguenze, io agirò domani in battaglia come un uomo che ha pensato stanotte: « ti amo, Adriana ». Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano. "

Qui commento con prefazione del '64 (da Antologia Palumbo)


2)  Il narratore fantastico: Il cavaliere inesistente  
Pubblicato nel 1959, Il cavaliere inesistente, che fa parte della trilogia I nostri antenati, (con  Il barone rampante e Il Visconte dimezzato) ci conferma la vena favolistica di Calvino. Il romanzo narra le vicende di Agilulfo, paladino di Carlomagno, che se ne va in giro, insonne, in una lucida armatura bianca, incline alle azioni perfette e alla nobiltà d'animo, pronto a raddrizzare torti, tutto spirito e razionalità, ma con un difetto: non esiste, o meglio la sua consistenza non è altro che la sua armatura vuota.
Innamorata di Agilulfo è  Bradamante, che ammira lo spirito di perfezione del cavaliere.

L'intreccio è svelato dalla monaca Suor Teodora, che scrive dall'interno di un convento, la quale si rivelerà poi essere, nel finale, nientemeno che Bradamante .  Sotto l'apparente divertimento  dell'autore, affiora l'angosciosa raffigurazione dell'uomo moderno, la sua impossibilità di essere autentico, l'identità incerta e vacillante di ognuno di noi, la fuga nella nevrosi, nella maschera del proprio ruolo sociale, o  peggio ancora, nell'incoscienza.

3) Il Calvino sperimentatore: 
questa vena prende forza dal trasferimento di Calvino a Parigi, negli anni settanta, e la sua frequentazione con l'Oulipo. Ne germinano opere diverse, i racconti T con zero; Il castello dei destini incrociati; Le cosmicomiche nella sua stesura completa; Le città invisibili; il romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore; Palomar;  le Lezioni americane

Il castello dei destini incrociati 



«Un personaggio che se nessun altro lo reclama potrei ben essere io: tanto più che regge un arnese puntato con la punta in giù, come io sto facendo in questo momento, e difatti questo arnese a guardarlo bene somiglia a uno stilo o calamo o matita ben temperata o penna a sfera e se appare di grandezza sproporzionata darà per significare l’importanza che il detto arnese scrittorio ha nell’esistenza del detto personaggio sedentario. Per quel che so, è proprio il filo nero che esce da quella punta di scettro da poche lire la strada che m’ha portato fin qui».

Letteratura  e tarocchi 
https://youtu.be/pk5uNMlsjVc
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 Le cosmicomiche

Le Cosmicomiche è una raccolta di 12 racconti scritti da Italo Calvino tra il 1963 e il 1964, in origine pubblicati  sui periodici,  successivamente ripubblicati sotto forma di raccolta da Einaudi nel 1965.
 I racconti sono   narrati in prima persona dal protagonista, il  vecchio Qfwfq, nome palindromo, prendono spunto da nozioni scientifiche, principalmente astronomiche, raccontate in modo surreale e appunto comico.
Era il 1964 quando Italo Calvino pubblica prima su Il Caffè e poi su Il Giorno dodici racconti che saranno poi pubblicati nel 1965 da Einaudi in una raccolta dal titolo Le Cosmicomiche. Da dove deriva questo nome apparentemente bizzarro? Cosmicomiche nasce dell’unione dei due aggettivi cosmico e comico: da un lato Calvino rende protagonisti delle sue pagine la scienza, la natura e lo spazio, dall’altro fonde questi elementi attraverso una prospettiva umoristica.
Qfwfq è il personaggio principale che racconta, attraverso dei monologhi, tutte le dodici storie. Ognuna di queste inizia con una premessa di natura scientifica – spesso il tema riguarda la sfera dell’astronomia – sviluppata poi nelle pagine a seguire in chiave comica. Qfwfq assume molteplici forme e vive diversi momenti centrali nella storia dell’uomo: è presente, ad esempio, durante il Big Bang, è una forma di vita primordiale ma anche un dinosauro che vede sparire tutti i suoi simili.
Scrive Calvino nella sua introduzione al volume:
Protagonista delle Cosmicomiche è sempre un personaggio Qfwfq, che ha l'età dell' universo. Non è detto che sia un uomo (può esserlo divenuto da che l uomo esiste; ma per miliardi d anni non è che una diciamo potenzialità). Il procedimento delle Cosmicomiche non è quello della Science Fiction, cioè quello classico e che pur molto apprezzo di Jules Verne e H. G. Wells. Le cosmicomiche hanno dietro di sé soprattutto Leopardi, i comics di Popeye (Braccio di Ferro), Samuel Beckett, Giordano Bruno, Lewis Carroll, la pittura di Latta e in certi casi Landolfi, Immanuel Kant, Borges, le incisioni di Grandville.

Scrive Rocco Capozzi in un suo saggio: 
Fino alla fine degli anni 70 per molti la questione rimaneva se dopo l' incontro con il gruppo Tel Quel e il suo sodalizio con R. Queneau, G. Perec e l' OuLiPo bisognava parlare di un nuovo Calvino lontano dall' impegno socio-politico e sempre più attratto dagli sperimentalismi linguistici e narratologici caratterizzati maggiormente da divertissement letterario e svariati aspetti di ars combinatoria; diciamo pure, un Calvino che va verso la surfiction, per dirla con Raymond Federman.
Nel 1980, la pubblicazione di Una pietra sopra facilitò il compito di verifica a coloro che sin dall' inizio degli anni 70 sostenevano, giustamente, che i saggi critici e i racconti de Le cosmicomiche e Ti con zero  sono essenzialmente due facce della stessa medaglia su cui vengono raffigurati i rapporti tra teoria e prassi nell' opera di Italo Calvino. Le Lezioni americane (1988) riconfermano ulteriormente questa tesi anche perché per molti versi le cinque lezioni si presentano come complementari alle pagine di Una pietra sopra dove l' autore discute di scrittura e narrativa in termini di sistema di rivelazione e una grande rete di associazioni. Nelle Lezioni americane troviamo pure dei legami tra l' opera di Ovidio e la sua scrittura, specialmente per quanto riguarda Le cosmicomiche. Nella prima lezione, Leggerezza , Calvino si riferisce più volte alle Metamorfosi richiamando la forza di Perseo che rifiuta una visione diretta della Medusa e commentando sulla leggerezza della scrittura di Lucrezio e Ovidio. La leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza.

Vedi anche Tra Eco e Calvino: relazioni rizomatiche

 

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Italo Calvino Tutto in un punto, in Cosmicomiche, Torino, Einaudi, 1965

«Si capisce che si stava tutti lì», fece il vecchio Qfwfq, «e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?» Ho detto “pigiati come acciughe” tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l’aspetto del carattere, perché quando non c’è spazio, avere sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante. Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall’altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera. Ognuno finiva per avere rapporti solo con un ristretto numero di conoscenti.
Quelli che ricordo io sono soprattutto la signora Ph(i)Nko, il suo amico De XuaeauX, una famiglia di immigrati, certi Z’zu, e il signor Pbert Pberd che ho già nominato. C’era anche una donna delle pulizie – “addetta alla manutenzione”, veniva chiamata –, una sola per tutto l’universo, dato l’ambiente così piccolo. A dire il vero, non aveva niente da fare tutto il giorno, nemmeno spolverare – dentro un punto non può entrarci neanche un granello di polvere –, e si sfogava in continui pettegolezzi e piagnistei. Già con questi che vi ho detto si sarebbe stati in soprannumero; aggiungi poi la roba che dovevamo tenere lì ammucchiata: tutto il materiale che sarebbe poi  servito, in un futuro imprecisato  a formare l’universo, smontato e concentrato in maniera che non riuscivi a riconoscere quel che in seguito sarebbe andato a far parte dell’astronomia (come la nebulosa  d’Andromeda) da quel che era destinato alla geografia (per esempio i Vosgi ) o alla chimica (come certi isotopi del berillo). In più si urtava sempre nelle masserizie della famiglia Z’zu, brande, materassi, ceste; questi Z’zu, se non si stava attenti, con la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria. Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z’zu, a cominciare da quella definizione di “immigrati”, basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, loro fossero venuti dopo. Che questo fosse un pregiudizio senza fondamento, mi par chiaro, dato che non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare, ma c’era chi sosteneva che il concetto di “immigrato” poteva esser inteso allo stato puro, cioè indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa dell’ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi, badate: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi s’incontrano – alla fermata d’un autobus, in un cinema, in un congresso internazionale di dentisti –, e si mettono a ricordare di allora. Ci salutiamo – alle volte è qualcuno che riconosce me, alle volte sono io a riconoscere qualcuno –, e subito prendiamo a domandarci dell’uno e dell’altro (anche se ognuno ricorda solo qualcuno di quelli ricordati dagli altri), e così si riattacca con le beghe di un tempo, le malignità, le denigrazioni.
Finché non si nomina la signora Ph(i)Nko, – tutti i discorsi vanno sempre a finir lì –, e allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nko, la sola che nessuno di noi ha dimenticato e che tutti rimpiangiamo. Dove è finita? Da tempo ho smesso di cercarla: la signora Ph(i)Nko, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un altro. Sia ben chiaro, a me la teoria che l’universo, dopo aver raggiunto un estremo di rarefazione, tornerà a condensarsi, e che quindi ci toccherà di ritrovarci in quel punto per poi ricominciare, non mi ha mai persuaso. Eppure tanti di noi non fan conto che su quello, continuano a far progetti per quando si sarà di nuovo tutti lì. Il mese scorso, entro al caffè qui all’angolo e chi vedo? Il signor Pbert Pberd. «Che fa di bello? Come mai da queste parti?» Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. È rimasto tal quale, col suo dente d’argento, e le bretelle a fiori. «Quando si tornerà là», mi dice, sottovoce, la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa gente rimanga fuori... Ci siamo capiti: quegli Z’zu...» Avrei voluto rispondergli che questo discorso l’ho sentito già fare a più d’uno di noi, che aggiungeva: «ci siamo capiti... il signor Pbert Pberd...» Per non lasciarmi portare su questa china, m’affrettai a dire: «E la signora Ph(i)Nko, crede che la ritroveremo?» «Ah, sì... Lei sì...» fece lui, imporporandosi. Per tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci ancora insieme alla signora Ph(i)Nko. (È così anche per me che non ci credo). E in quel caffè, come succede sempre, ci mettemmo a rievocare lei, commossi, e anche l’antipatia del signor Pbert Pberd sbiadiva, davanti a quel ricordo.
Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto con il suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c’è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta di andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. Fosse stata un’altra persona, chissà quante cose le si sarebbero dette dietro. La donna delle pulizie era sempre lei a dare la stura alle maldicenze, e gli altri non si facevano pregare a imitarla. Degli Z’zu, tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figlie fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca insinuazione. Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei era insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l’impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più? E tutto questo, così come era vero per me valeva pure per ciascuno degli altri. E per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente. Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: «Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!» E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni  galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: «... le tagliatelle, ve’, ragazzi!» il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva in una raggiera di distanze d’anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo (il signor Pbert Pberd fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore, lei signora Ph(i)Nko, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace d’uno slancio generoso, il primo «Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!», un vero slancio d’amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione universale, e all’universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nko, sparse per i Continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla.

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Nel racconto Tutto in un punto, ad esempio, Calvino prende spunto dalle ricerche sulle galassie iniziate negli anni venti dall’astronomo e astrofisico statunitense Edwin Powell Hubble. Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità di allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell'universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio.


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Le città invisibili 1972
Le città invisibili sono strutturate seguendo un ordine simmetrico rigoroso. Il libro è diviso in 9 sezioni di 5 testi ciascuno, a eccezione della prima e dell’ultima sezione che contano 10 testi. Ogni sezione è introdotta e conclusa da un testo in corsivo che fa quindi da cornice. I testi introduttivi e conclusivi riportano lo scambio di opinioni tra Kublai Kan e Marco Polo: il primo è l’imperatore dei tartari che ha affidato a Marco il compito di perlustrare l’intero suo impero e riportare all’imperatore notizie riguardanti le condizioni in cui versa. I testi delle sezioni sono in totale 55, che equivalgono alle città che Marco descrive- Marco Polo. è l’esploratore per antonomasia e nello stesso tempo il narratore di luoghi fantastici, per cui non poteva esistere personaggio più adatto al romanzo di Calvino. La base delle Città invisibili è perciò Il milione, il fantastico libro di viaggio dell’esploratore veneziano, e forse ogni città immaginata è Venezia. 

Con quest’opera Calvino mostra di aver subito l’influenza della semiotica e dello strutturalismo che, negli anni in cui il nostro scrittore opera, diventano centrali nel discorso letterario contemporaneo e italiano.

QUI il libro in pdf


FEDORA E OTTAVIA 

LEONIA


La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello di apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove o diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.
Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalla città, certo ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, e a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.
Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo di frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.


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Se una notte d'inverno un viaggiatore 1979

(Clicca sul titolo e avrai il romanzo completo in pdf)

 Ciò che interessa a Calvino non è un racconto particolare, ma il potere narrativo di ogni racconto: per questo aderisce all'OULIPO  che crede ed applica il potere combinatorio delle parole, la macchina narrativa. (influenzato anche dal suo lavoro di ricerca e riscrittura della FIABE ITALIANE)

Per Calvino le persone – e così anche i personaggi letterari – sono ciò che capita loro. Ecco perché l’universo calviniano è un ribollire inesauribile di situazioni narrative, peripezie fantastiche e soluzioni possibili, mentre scarseggiano i profili definiti di soggetti in grado di imporsi sul contesto in cui si muovono. Dagli alter ego “realisti” alla Amerigo Ormea a quegli “ammicchi umani” sulla realtà che sono Qfwfq e Palomar, il personaggio calviniano si distingue per la sua trasparenza, per un essere voce senza corpo, come Kublai Kahn e Marco Polo nelle Città invisibili.

LEZIONI AMERICANE

 qui quella integrale sulla leggerezza 

e qui quella sulla molteplicità

Una analisi ricca e profonda di tutta l'opera di Calvino in Il cristallo e la fiamma 


Calvino: 10 frammenti per riscoprirlo


1923/2023 Celebrazioni per il centenario della nascita. E' l'occasione per rinnovare l'analisi dell'opera di Calvino. 

Mettere a distanza il mondo: per i cento anni di Italo Calvino (Riccardo Gasperina Geroni, Unibo) 




Molti articoli nel numero di ottobre 23 della Rivista Biblioteca Via Senato 

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